Vedremo ci ha avuto ragione

SPY FINANZA/ Usa e Germania, pronto un brutto scherzo per l'Italia

Per la Germania non è un momento facile: gli Stati Uniti sembrano intenzionati a penalizzarla. Tutto questo finirà per nuocere anche all’Italia, dice MAURO BOTTARELLI
Angela Merkel (Lapresse)Angela Merkel (Lapresse)
Schiacciata com’era dallo storico incontro al 38mo parallelo fra i due leader coreani, non poteva che passare in secondo piano su tutti i media. Il giorno dopo, poi, la morte del piccolo Alfie ha fatto il resto: della fallimentare visita di Angela Merkel alla Casa Bianca di venerdì scorso sono sparite le tracce. Causa di forza maggiore giornalistica, verrebbe da pensare. O, forse, interesse politico. Perché quanto accaduto a Washington ha un’importanza capitale ed è di una gravità quasi senza precedenti. Primo, politicamente ha sancito l’irrilevanza della Cancelliera tedesca nel nuovo scacchiere diplomatico internazionale, quello di fatto apertosi con l’elezione di Trump e la Brexit, proseguito con la lunga tornata elettorale europea dello scorso anno e culminato con il raid contro Damasco, con soltanto Francia e Gran Bretagna al fianco operativo degli Usa.

Angela Merkel paga ovviamente dazio all’accordo di governo con la Spd, il quale ha sì posto fine a cinque mesi di impasse politica, quasi un unicum assoluto nella storia recente tedesca ma ha anche spalancato i portoni a una serie di concessioni politiche ai socialdemocratici, tali da minare la primazia della Cdu/Csu sull’azione dell’esecutivo: certo, in onore delle elezioni in Baviera del prossimo autunno, la Merkel ha ottenuto l’accordo sulle quote annuali di migranti, ma ha dovuto cedere - e pesantemente - sui capitoli di spersa pubblica, surplus in testa: insomma, l’asse del rigore interno sui conti che ha garantito alla Germania proprio quello sproposito di extra-gettito nel budget, frutto delle pressioni oltranziste della Bundesbank in fatto di dinamiche salariali, è saltato, occorreva scendere a patti. E Angela, solitamente inflessibile, ha piegato la schiena.
Ma al di là delle vicende interne al Bundestag, tremendamente influenzate anche dalla necessità di non offrire sponde demagogiche ad Alternative fur Deutschland, è la politica estera che rischia di costare cara alla Merkel. L’essersi chiamata fuori dalla rappresaglia siriana, limitandosi a una generica accusa verso Assad e alla condanna altrettanto formale delle armi chimiche, è stato un segnale che chi di dovere ha colto, in maniera netta. Il tutto, a due settimane dall’atto più grave, ovvero la concessione da parte del nuovo governo di coalizione di tutti i permessi al consorzio Nord Stream 2, la pipeline destinata a creare un collegamento energetico diretto fra Russia e Germania, bypassando l’Ucraina, da sempre spina nel fianco delle mire egemoniche americane nell’area. Non a caso, il Dipartimento di Stato ha ampliato a tutti i soggetti partecipanti al consorzio il regime di sanzioni imposto alle aziende russe ma questo non ha fermato Berlino: una sfida in piena regola.
Ed ecco che la vendetta si è sostanziata del tutto venerdì, quando Donald Trump ha non solo messo in evidenza la palese differenza di trattamento protocollare riservata a Macron rispetto alla Merkel, dedicando alla Cancelliera il minimo sindacale del suo tempo per incontri diplomatici, ma, soprattutto, ha chiuso la porta su entrambi i capitoli di discussione che stavano a cuore alla Germania: dazi, intesa come politica commerciale e anche sanzionatoria e Iran. E attenzione, perché al netto del sempre crescente controvalore dei contratti bilaterali fra ditte tedesche e soggetti legati a Teheran, nell’ordine dei miliardi, la Cancelliera ha mostrato tutta la sua debolezza politica quando non ha esitato nel cercare di ingraziarsi l’inquilino della Casa Bianca, definendo «non perfetto» l’accordo nucleare iraniano e sottolineando come ora toccherà attendere la discussione in merito da parte degli alleati statunitensi.
Insomma, una mezza concessione a fronte di una posizione, quella tedesca, che fino a poco fa era in perfetta sintonia con quella dell’Ue, più volte rivendicata da Federica Mogherini: l’accordo con Teheran funziona, al limite va implementato ma non certo disatteso. Scelta che, invece, pare sempre più chiaro che sia nelle intenzioni di Washington, la quale dovrà dare un suo parere al riguardo entro il 12 maggio: di fatto, ci siamo. E proprio nel corso di questo fine settimana abbiamo avuto la riprova di come sull’asse Berlino-Washington il rischio di incidente diplomatico, se non di frattura vera e propria, paia dietro l’angolo. Sabato, la coalizione anti-terrorismo a guida saudita (già questo tramuta il tutto in un garbato quanto beffardo eufemismo) e a cui partecipano attivamente anche gli Usa ha compiuto un bombardamento sulla capitale dello Yemen, Sana’, nel corso del quale sarebbero stati uccisi parecchi militanti Houthi, fra cui due leader militari dei ribelli sciiti filo-iraniani. Un segnale chiaro da parte di Ryad: il viaggio negli Usa del principe Mohammed bin Salman ha ottenuto ciò che si era prefisso, ovvero far intravedere agli Usa la possibilità di mettere le mani su parte dell’Ipo di Aramco, il gigante petrolifero statale saudita, a fronte di collaborazione e soprattutto impunità rispetto alla campagna in Yemen, la quale ha reclamato migliaia di vite di civili innocenti ma senza che l’Onu abbia detto una parola, così come i grandi soloni del giornalismo, sempre pronti a condannare il regime di Assad e benedire le bombe su Damasco. A quanto pare, donne, bambini e vecchi yemeniti sono antipatici alla nomenklatura dei diritti umani.
In perfetta contemporanea con il raid in Yemen, però dalla Germania arrivava la notizia di una proposta di legge del partito di sinistra, Die Linke, per vietare la vendita di armi tedesche ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, proprio per l’utilizzo di quegli armamenti contro civili in Yemen. Un unicum assoluto per la Germania, oltretutto con natura retroattiva: se la proposta di legge passasse, tutti i contratti in essere sarebbero annullati. E se la Cdu/Csu pare nettamente contraria, l’ala sinistra interna della Spd sarebbe tentata dal blitz, quantomeno per recuperare consensi sotto la guida della nuova leader, Andrea Nahles, intenzionata a porre fine al drenaggio di voti ribelli e delusi nella ex-Ddr, divenuta terreno di conquista proprio della Linke ma anche di Alternative fur Deutschland.
Il tutto, in un contesto economico tedesco che è quello di cui vi ho parlato la scorsa settimana, ovvero con un rischio di recessione salito da poco più del 5% al 32,4% nell’arco di tre settimane fra fine marzo e inizio aprile: il motivo? I dazi commerciali Usa su alluminio e acciaio, oltre alle sanzioni contro aziende russe, il cui combinato ha ad esempio fatto salire del 30% il costo dell’alluminio e mandato in panico gli imprenditori tedeschi, i quali la settimana precedenti al viaggio americano della Merkel avevano infatti riunito il loro gruppo di pressione nell’ufficio berlinese alla presenza non solo di politici nazionali ed europarlamentari ma anche funzionari ed emissari delle istituzioni Ue. Insomma, come vi dico da sempre, la guerra commerciale Usa è rivolta alla Cina solo formalmente, la vera vittima - e il vero obiettivo - è l’eurozona, in primis la Germania che ne rappresenta la locomotiva economica da sempre. E se il rafforzamento puramente di matrice speculativa del dollaro ha fatto respirare un po’ l’export europeo nell’ultimo periodo, le prospettive di lungo termine vedono la divisa unica destinata a rafforzarsi, non fosse altro che per l’operatività di una Fed che sta giocando con i dati macro per mantenere a galla l’economia interna. A qualsiasi prezzo.
Non è un caso che le dinamiche di rendimento dei titoli di Stato Usa abbiano portato a una rivalutazione in negativo degli stessi come asset rifugio, visto che le prospettive di una nazione che ha il decennale al 3% e il trentennale a poco più di quella soglia, mentre la carta a 2 anni già prezza un 2,20% di premio di rischio, sono tutto tranne che rosee. Almeno nella percezione di chi investe, quindi spostamento verso il credito europeo, flussi di denaro verso l’eurozona e naturale apprezzamento dell’euro: come impatterà tutto questo su un’economia tedesca già con il fiatone, come ha certificato l’ultima lettura dello Zew relativa alla fiducia delle imprese?
E se per caso, fra meno di due settimane, la Casa Bianca metterà davvero in discussione ufficialmente l’accordo sul nucleare iraniano, quelli dinamiche prenderà uno degli assets che più interferiscono sulle prospettive inflazionistiche (e quindi di intervento su tassi e politica monetaria) come il petrolio? Non a caso, l’Arabia Saudita pare tremendamente ringalluzzita, soprattutto perché sul fronte dei suoi alleati, oltre allo storico amico e armiere statunitense, c’è anche Israele, Paese che formalmente dovrebbe temere Ryad come il diavolo, essendo la fonte di finanziamento di tre quarti del terrorismo islamico mondiale e che invece, in base alla legge del beduino e al pragmatismo più spinto che da sempre norma e regola della politica di Tel Aviv nella regione, figura nei primi posti della lista speciale dei Paesi amici.
Cosa farà la Germania, a quel punto? Quanto la crisi economica montante guiderà le mosse di Berlino in seno all’Ue e, forse, anche alla Nato, visto che Trump ha fatto notare senza troppi giri di parole alla Merkel che occorre stanziare maggiori risorse per la difesa, un qualcosa che troverà il “no” della Spd pronto a bloccare ogni mossa dell’esecutivo in tal senso? Una cosa è certa: la nuova crisi finanziaria sta arrivando, lo confermano l’atteggiamento della Bce e le parole stesse di Mario Draghi, costretto in corner dai dati macro e trinceratosi dietro la formula dei «rischi al ribasso inattesi». Addirittura, la Bank of Japan, come vi ho detto la settimana scorsa, ha spostato ai prossimi 5 anni l’approdo al target del 2% di inflazione, di fatto annunciando un Qe perenne. Vi invito, in tal senso, a sentire e leggere il parere di un veterano dell’investimento come Peter Schiff, almeno mi sentirò meno solo nel ruolo di profeta di sventura.
Ma c’è un’altra cosa di certo: la Germania penserà a salvare se stessa, prima di condividere qualsiasi tipo di ricetta per la tutela comune. Non a caso, come vi ho raccontato nei mesi scorsi, la Bundesbank ha rimpatriato con anni di anticipo tutto il suo oro fisico detenuto all’estero, fra New York, Parigi e Londra. Casualmente, i tre Paesi che hanno attaccato la Siria. Casualmente, il nuovo asse, con la Gran Bretagna del Brexit a fungere ancor più con mano libera da cinghia di trasmissione degli ordini atlantici verso la colonia europea. L’Italia. Da che parte sta? E starà?
Quando avremo finito con le consultazioni, quando avremo smesso di ritenere anche solo minimamente credibile un’ipotesi di governo che contempli a palazzo Chigi uno come Luigi Di Maio e i suoi sodali, magari diamoci una risposta. Ma meglio essere chiari, subito: siamo già in ritardo nel posizionarci. Tremendamente in ritardo, perché Paolo Gentiloni ha interpretato in maniera molto ampia il concetto di disbrigo degli affari generali e si è già schierato, mani e piedi, con Washington: peccato che in autunno alla Casa Bianca cambieranno, radicalmente, le politiche, oltre che gli inquilini. E il buon Macron, mossosi servilmente con largo anticipo, godrà di corsia preferenziale. Prepariamoci al sacco di ciò che resta dei nostri gioielli statali (non pensiate che il fermo di Bollorè per tangenti in Africa non sia un segnale chiaro in tal senso da parte dei soliti corpi intermedi del potere), al resto ci penserà la troika. Sotto qualsiasi forma si presenterà.
P.S.: È del tardo pomeriggio di ieri, quando questo pezzo era già in redazione per essere impaginato, la notizia di un colloquio telefonico fra Emmanuel Macron e Angela Merkel dedicato proprio al tema del rapporto con gli Usa rispetto a dazi e accordo con l’Iran. Stando alle cronache, i due avrebbero concordato su tutto: via le condizioni penalizzanti in fatto di commercio o l’Europa reagirà, mentre riguardo al nucleare iraniano, la linea è che Parigi, Berlino e addirittura Londra sostengono a spada tratta l’accordo. Prendo atto. Ma non cambio una virgola di ciò che ho scritto. Quando le parole lasceranno spazio ai fatti e agli atti concreti, vedremo chi avrà avuto ragione.

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