La svendita delle aziende pubbliche ha costituito uno dei
punti più bassi della già triste storia del capitalismo straccione nostrano. Il
conto come sempre lo paga il popolo italiano
La Prima Repubblica era fondata sulla partecipazione
statale. Non era possibile altrimenti, perché lo sviluppo che si è avuto nel
dopoguerra non era concepibile senza l’apporto decisivo dei finanziamenti
pubblici. Era lo stesso capitalismo in embrione che, per crescere, aveva
bisogno dell’intervento dello Stato. Ma quando il capitalismo è cambiato,
quando non ha avuto più necessità di appoggiarsi alla mano pubblica, e anzi
questa diventava un ostacolo all’ulteriore espansione dei profitti, ecco che
ciò che fino a quel momento veniva considerato come necessario, diventava
improvvisamente superato e “inefficiente”. Così, dagli anni Novanta, nel nostro
paese si è incominciato a parlare di privatizzazioni. Ciò è avvenuto anche a
causa di una mutata cornice politica nazionale e internazionale: non c’era più
il PCI, come tutti i partiti maggiori della Prima Repubblica, i quali erano,
almeno in parte, statalisti (DC e PSI); non c’era più l’Unione Sovietica che
serviva da monito e avvertimento per il capitalismo occidentale. La sinistra
era diventata liberista e si trovava in prima fila nel promuovere la
dismissione dei beni pubblici. Le ragioni della sua urgenza venivano
individuate nella necessità di ridurre il debito pubblico, di rendere le
aziende statali (“carrozzoni”, come venivano chiamate) più efficienti e
competitive e, infine, di contrastare fenomeni di corruzione e clientelismo.
A distanza di oltre vent’anni si può dire che nessuno di
questi scopi sia stato raggiunto. Il debito pubblico non è diminuito (se non di
poco per un breve periodo, per poi tornare di nuovo a crescere più di prima) le
aziende privatizzate non sono più efficienti, anzi, presentano numerosi
disservizi e hanno rischiato il fallimento, l’illegalità esiste nel privato
tanto quanto nel pubblico. Gli effetti delle privatizzazioni, senza il bisogno
di scomodare dati tra l’altro inoppugnabili, sono evidenti empiricamente a
chiunque. Se si prende il caso dell’Enel, i costi per l’utenza sono aumentati,
a fronte di un peggioramento nella qualità del servizio. Subito dopo la
privatizzazione dell’energia elettrica gli investimenti industriali impegnano
solo il 30% dei fondi dal 59 del quinquennio precedente. Stesso discorso per le
Autostrade, dove crollano i cavalcavia perché la società risparmia sulla
manutenzione e le tariffe hanno raggiunto livelli inediti noti a qualsiasi
automobilista, mentre i ricavi sono cresciuti in misura considerevole. Ma ciò
non è bastato e si è continuato ossessivamente a ripetere il mantra delle
privatizzazioni, alimentato dai sacerdoti delle facoltà di economia (quelli che
hanno sbagliato tutte le previsioni) che sono giunte all’ultima tranche con la
quotazione in borsa delle Poste e di una parte delle Ferrovie (nessuno si
domanda cos’altro ci si venderà quando si sarà venduto tutto).
Un quadro delle privatizzazioni in Italia
Che cos’è che non funziona nella privatizzazioni?
Non si tratta del “modo” in cui si è privatizzato: gli
stessi effetti si notano infatti in tutti i settori, anche in quelli
maggiormente liberalizzati, come la telefonia (contrariamente alla filastrocca
della liberalizzazione del mercato come passo successivo alla privatizzazione
per renderla benefica). Non si tratta di una qualche tara nazionale, che come
spesso avviene, nasconde le vere cause dietro un pregiudizio autorazzista. Gli
stessi disagi, infatti, si possono osservare in molti altri paesi, anche quelli
considerati dalla retorica autorazzista come “virtuosi” (basti pensare
all’Olanda dove la privatizzazione delle poste ha causato la chiusura del 90%
degli uffici). Il vero problema è strutturale, e riguarda la differenza tra utilità
privata e aziendale e benessere pubblico e sociale. Le due cose non coincidono.
Non si tratta affatto di un assunto banale, perché molti economisti hanno
teorizzato il contrario. Secondo l’ideologia liberista se ogni individuo
privato agisce per il proprio interesse personale, questo, per una sorta di
congiunzione astrale, dovrebbe assicurare il benessere collettivo. L’individuo
è l’unico a conoscere il proprio interesse e l’unico a sapere come soddisfarlo,
ma così facendo, egli, collaborerebbe senza volerlo al benessere di tutti.
Questa credenza religiosa (perché tale è) prima ancora che filosofica – e solo
conseguentemente economica – è il vero fondamento del liberismo. Per questo i
liberisti credono nelle virtù salvifiche del mercato, dove ogni operatore
ricercando il proprio guadagno lavorerebbe per il bene collettivo. Questa
teoria è stata sviluppata nel XVIII secolo per un’unica ragione: contrastare il
potere dello Stato; lo Stato non sarebbe “per natura” in grado di assicurare il
bene né per l’individuo, né (e questa è la vera innovazione del liberismo) per
la società. L’unica possibilità è che lo Stato sia ridotto alle funzioni
essenziali e il resto venga lasciato alla libera contrattazione dei privati
(che in realtà, poi, tanto “libera” non è). Così per i liberisti privatizzare è
un imperativo ideologico e religioso, non “tecnico” e scientifico. Per loro la
gestione statale è sempre sbagliata e quella privata sempre corretta.
Fatta questa parentesi, torniamo alla distinzione tra
interesse privato e interesse collettivo. Poiché per i liberisti le due cose
coincidono – in quanto, come si è detto, agendo il soggetto privato per il
proprio interesse agisce anche, involontariamente, per l’interesse di tutti –
l’utile aziendale vuol dire sempre un beneficio per la società. Peccato però
che i fatti, come diceva qualcuno, “hanno la testa dura” e non ne vogliono
sapere delle teorie dei liberisti. Si possono aumentare i profitti, certo,
investendo, assumendo nuovi lavoratori, ampliando la produzione, migliorando il
prodotto, persino aumentando i salari. Ma questa non è la via comunemente
scelta, soprattutto nell’attuale periodo storico nel quale si tende a tagliare
investimenti, posti di lavoro, salari e a risparmiare sulla qualità del
prodotto. Ciò assicura guadagni agli azionisti, ma non si può certo dire che
comporti un bene per la società, poiché fa crescere la disoccupazione, rende
beni e servizi più costosi e riduce i salari dei lavoratori. Il bene privato
non coincide con il bene pubblico, e questa è una verità difficilmente
contestabile.
Alcune delle esternalità negative delle privatizzazioni
Perché allora i liberisti si ostinano a sostenere il
contrario?
Sicuramente in parte lo fanno per fede: piuttosto che
rimettere l’ideologia in discussione preferiscono negare la realtà: è una
difesa psicologica abbastanza comune e diffusa. Ma questo non basta a spiegare
la ragione per cui una teoria errata (e, in questo caso, palesemente e
clamorosamente errata) continua a resistere. C’è un altro motivo, che va
ricercato non nelle idee e nelle credenze, ma nel fatto materiale “nudo e
crudo”. La domanda che bisognerebbe porsi ogni volta che si valuta la
fondatezza di una teoria è: “a chi giova e a chi nuoce?” ovvero: “a quale
gruppo sociale conviene e quale gruppo sociale penalizza?”. Rispondere a questa
domanda significa aver fatto luce su buona parte dei fondamenti della teoria.
Nel nostro caso, quindi, chiedendoci a chi giovino il liberismo e le
privatizzazioni, la risposta non può che essere: ai grandi colossi industriali
e finanziari. Le privatizzazioni sono state una irrinunciabile opportunità di
guadagno per le multinazionali, che hanno potuto acquisire ex aziende pubbliche
indebitate, ristrutturarle e rivenderle realizzando così immensi profitti. In
una fase del capitalismo di saturazione dei mercati, le aziende pubbliche hanno
rappresentato la “gallina dalle uova d’oro”. Questa e soltanto questa è la
ragione del persistere delle privatizzazioni compulsive e delle mistiche che
hanno il compito di giustificarle. L’elemento ideologico, come insegna Marx, è
sempre unito all’elemento economico. Una certa visione del mondo può imporsi
solo laddove si saldi con gli interessi materiali di un gruppo sociale
abbastanza forte.
di Matteo Volpe - 10 giugno 2017
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