Le rigide regole che governano l’eurozona

PERCHE’ NON SI SCIOGLIE IL MES E CON IL CAPITALE SI RICAPITALIZZA LA BEI? 

Dopo che le Istituzioni europee hanno tardivamente ammesso di aver sottovalutato l’emergenza sanitaria-sociale-economica nell’eurozona a causa della pandemia, in queste ore si moltiplicano le proposte finanziarie per dare sostegno ai paesi membri più colpiti.
Tali proposte, per quanto noto finora, già si preannunciano come assolutamente inadeguate, per modalità (prestiti con onere di restituzione sia degli interessi che delle quote di ammortamento del capitale) e entità (entrano in gioco decimali di PIL, per ciascuno Stato, laddove la recessione minaccia di essere di decine di punti di PIL).

Così, l’attivazione “light” del MES, cioè senza o… “quasi senza” condizionalità, è un mero espediente di marketing politico, perché le condizionalità, per il Trattato, devono inderogabilmente essere rigorose e la Germania e i paesi “satelliti” non accetterebbero mai un compromesso sulla sostanza del rigore condizionale, ma al massimo una mera formula di facciata; poi, l’emissione di euro-bond con non meglio specificate garanzie comuni, per l’occasione denominati corona-bond (forse…), di cui non si conosce quale sarebbe l’organismo emittente, stante il divieto alla loro emissione finora ritenuto vigente in base all’art.125 TFUE (dalla stessa Corte Ue).O, ancora, il SURE apposito fondo europeo contro la disoccupazione che, sempre secondo le intenzioni dei promotori, attraverso 25 Mld di garanzie volontarie dei paesi membri consentirà di finanziare le rispettive casse integrazioni. Ma ciò ricorrendo al consueto schema oneroso, per cui il fondo finirà, in definitiva, per restituire a ciascun Stato aderente tanto quanto (se gli va bene) ha versato come contribuzione (o “garanzia” pubblica immediatamente attivabile), dandosi comunque luogo ad una forma di prestito con rimborso di interessi e quote di capitale (il che rende più conveniente, per il singolo Stato, finanziarsi direttamente mediante i propri titoli del debito pubblico, rinnovabili alle scadenze e, comunque, attualmente acquistabili dalla BCE nell’ambito del suo programma di acquisti straordinario).
La complessità di tutti questi meccanismi, incomprensibili al cittadino comune, deriva dall’esigenza di un compromesso di facciata, davanti all’opinione pubblica, che dissimuli la realtà per cui le rigide regole che governano l’eurozona, nonostante le “pallide” deroghe e sospensioni adottare in fretta e in furia, non consentono all’UE, coi suoi vari organi, di agire con la stessa volontà e ampiezza di misura adottate da qualsiasi altro governo del mondo. Ed infatti, sul punto controverso dell’adattabilità o modificabilità, o meno, di queste regole già esistevano, prima dell’attuale crisi, e si sono poi drammaticamente radicalizzati, due blocchi all’interno dell’Unione Europea: uno, capeggiato dalla Germania con i suoi fedeli satelliti storici, che non tollera alcun cambiamento delle regole (incentrate esclusivamente su “forte competizione” e “stabilità dei prezzi”; art.3, par.3, TUE), e l’altro “latino”, con Italia, Spagna e Portogallo, che tenta di aggrapparsi all’illusione che i trattati siano cooperativi e quindi adattabili per finalità solidaristiche, di ordine fiscale e finanziario; con la Francia in bilico fra i due schieramenti.
La frattura sempre più profonda che attraversa l’UE passa per una vetusta e anacronistica idea (risalente al trattato di Maastricht, in effetti), per la quale l’emissione monetaria non possa essere rivolta direttamente all’economia reale, meno che mai in modo “mirato” ad un singolo Stato appartenente all’eurozona, ma solo al settore bancario, a pena di causare un’inflazione che diminuirebbe la “competitività” dell’intera eurozona (e incrementerebbe il tasso di interesse, facendo, in assunto, pagare più tasse ai virtuosi tedeschi, in corrispondenza dell’aumentato onere del loro debito pubblico; per quanto, notoriamente, i detentori autoctoni dei bund si lamentino, da anni, proprio del contrario, cioè della redditività negativa degli stessi e, di conseguenza, dell’abbassamento di redditività dei loro sistemi bancario e previdenziale).
Di fronte all’attuale situazione, di crollo simultaneo di offerta e domanda, non è tuttavia proprio possibile scorgere un pericolo inflattivo (data la caduta vertiginosa e prolungata delle transazioni commerciali ai più vari titoli e, a monte, della stessa base di capitale e di reddito!); tanto più che si manifesterà il fenomeno opposto, cioè una ostinata e irrisolvibile deflazione. Perciò, guardando alle cose con razionalità economica, la “fissa” monetarista e deflattiva di Germania & alleati assume (solo) un puro valore antisolidaristico a sfondo morale: che risulta, peraltro, legittimo, cioè conforme alle regole, in quanto imposto dal trattato, all’art.123 TFUE (divieto di acquisto diretto dei titoli di Stato e di ogni forma di monetizzazione fiscale da parte della BCE).
Un’opzione invece percorribile, e potenzialmente più idonea, sarebbe potuta invece essere quella di coinvolgere la Banca Europea degli Investimenti, dotandola di un capitale estremamente più corposo, per metterla di conseguenza nelle condizioni di poter emettere quantità di obbligazioni nettamente superiori a quelle previste dalle proposte fino ad ora sentite.
Per contro, l’intervento della BEI deliberato nella giornata di venerdì scorso, ripercorre lo schema del prestito oneroso, a carico delle imprese bisognose di immediata liquidità, aggiungendo però la garanzia degli Stati che, in caso di mancata restituzione, dovrebbero provvedervi loro, attraverso i contributi ulteriori (oltre al capitale già versato) da corrispondere alla BEI e, nel caso, attraverso l’ulteriore emissione di debito pubblico. Inoltre, rimanendo immutato il quadro statutario delle regole operative della BEI, questa può agire solo in co-finanziamento (art.16, par.2, Statuto), ed ha ben precisi (e in verità macchinosi) sistemi di limitazione della leva di credito rispetto al contributo e al capitale apprestato dagli Stati (in linea di principio, la BEI può impegnarsi fino al 250% del capitale sottoscritto, più le riserve, e detratte le partecipazioni, – art.16, par.5 -, capitale oggi pari a circa 242 miliardi).
Infine, La BEI, anche agendo nel quadro dell’attuale delibera,attiverebbe, tra “leva” e “cofinanziamento” (da parte di istituti bancari privati), pretesi 40 miliardi di liquidità (rendendo disponibili impegni propri solo per circa la metà); e questi 40 miliardi, al massimo, varrebbero per tutte le imprese dell’Unione e a fronte di una crisi la cui entità si sta già misurando a decine di punti di caduta degli indici PMI (essendo oltretutto, per capirsi, il PIL dell’intera UE pari a circa 16.000 miliardi euro). Un ammontare assolutamente inadeguato e irrealistico; come irrealistico, e anzi surreale, – rispetto alle esigenze della crisi che si stanno manifestando -, è l’insieme delle misure che abbiamo sopra riassunto.
Ma, ove mai si registrasse una convergenza di realismo e volontà cooperativa nell’Unione (e nei paesi “dominanti”, prima di tutto), l’intervento della BEI potrebbe invece esplicarsi utilmente, sfruttando il suo essere, contemporaneamente, organismo dell’Unione (e non della sola area euro: art.308 TFUE) e “banca” di credito speciale (art.1 Statuto), ma anche, in sostanza, un “ente creditizio di proprietà pubblica” ai sensi dell’art.123 TFUE (sopra visto).
Apportate le modifiche alle norme statutarie sopra segnalate, che limitano la capacità operativa della BEI, sia per le quantità che per le modalità di erogazione, il primo passo che andrebbe adottato sarebbe quello di “convertire” in capitale della BEI, il capitale sottoscritto (da non confondersi con il versato) del MES, pari a (teorici) 704,8 Mld.
Il MES, come riportano i giornali di tutto il mondo (in testa lo stesso Financial Times), vede oggi tutti i paesi aderenti che lo considerano con timore e titubanza, vista l’esperienza della Grecia.
Inoltre, la vera “ratio” della modifica dell’art.136 (par.3) del trattato su cui si fonda l’istituzione del “meccanismo”, era quella di stabilizzare l’area euro di fronte agli squilibri commerciali (e finanziari) asimmetrici determinati dalle differenze di competitività cumulatesi nel primo decennio di vita dell’euro. Una finalità che lo rende statutariamente inidoneo e inutilmente punitivo, con le sue condizionalità fortemente pro-cicliche, a gestire l’attuale eccezionale crisi.
A fronte dell’assoluta emergenza che si sta profilando, dunque, il MES nella forma attuale potrebbe essere (rapidissimamente) liquidato – e semmai trasformato in qualcosa di diverso e meno penalizzante per la crescita – e il capitale netto sottoscritto, nella parte non funzionale alla liquidazione (che interessa crediti verso gli Stati per circa 80,5 miliardi finanziati con emissione di obbligazioni in misura sostanzialmente corrispondente), potrebbe sommarsi, all’interno della BEI, al capitale già sottoscritto di quest’ultima (abbiamo visto pari a circa 240 miliardi).
Se si mutasse l’attuale moltiplicatore del 250%, usato per porre un tetto gli impegni assumibili dalla BEI, portandolo ad es; al doppio, cioè al 500% (leva che, in caso di “piano epocale di ricostruzione” di un continente non sarebbe particolarmente “azzardata”) – o anche più -, ciò consentirebbe di poter chiedere ai mercati (o, come, vedremo, a “qualunque” finanziatore) provviste estremamente elevate, evidentemente nell’ordine delle migliaia di miliardi di euro, da poter mettere a disposizione dei paesi dell’eurozona in funzione della percentuale di afferenza al capitale (l’Italia, attualmente, vanta una quota del 16,2% del capitale).
I tassi offerti sarebbero praticamente omogenei essendo unico emittente mentre l’utilizzo della liquidità potrebbe essere previsto secondo un protocollo condiviso che supererebbe sia le enormi difficoltà poste dal “riformando” MES, che gli attuali limiti di titolo di prestito erogabile con le procedure ora seguita dalla BEI per Statuto. Oltretutto, le tipologie di investimenti per cui può operare, previste dall’art.309 TFUE (par.1, lett. a) b) e c)), ricorrono tutte insieme nel tipo di crisi simultanea e generalizzata imposta dal lockdown. Sicché una semplificazione procedimentale nell’erogazione del credito, sarebbe agevolmente operabile con delle opportune modifiche dello Statuto.
All’interno dello stesso, poi, si può prevedere “l’argomento forte” di tutta l’operazione: e cioè valorizzare e meglio specificare l’art.14, par.2 dello Statuto, sulla collaborazione della BEI con “gli istituti bancari e finanziari” dei paesi in cui opera. Un’utile specificazione dovrebbe esplicitare il coordinamento con la Banca Centrale Europea, nell’ambito delle operazioni di finanziamento emergenziale in caso di grave crisi economica estesa a tutta l’eurozona.
Come abbiamo già detto, la BEI, potendosi considerare un “ente creditizio di proprietà pubblica”, a norma dell’art.123, par.2, TFUE, non è soggetto al divieto di acquisto diretto dei titoli emessi posto dall’art.123, par.1; e ciò “nel contesto dell’offerta di liquidità da parte delle banche centrali”.
In sostanza, la BEI, per la quantità di obbligazioni emettibili con l’effetto leva determinato dall’accresciuta capitalizzazione qui ipotizzata, potrebbe vedersi lecitamente finanziata all’emissione dalla BCE (è questione di… buona volontà e buona fede, viste le prassi già attualmente seguite). In questa ottica di coordinamento tra BEI e BCE, la prima funzionerebbe, sia pure in modo non “specializzato”, in modo analogo agli special vehicles federali, messi in campo negli USA per intermediare un sostanziale finanziamento diretto della Fed ai vari settori industriali. La BEI, pertanto, potrebbe (ripartendo i prestiti pro-quota di partecipazione di ciascun paese al suo capitale) finanziare a tassi pari o prossimi allo zero, e con scadenze lunghissime (70 e più anni), le imprese non finanziarie impegnate nella ripresa industriale e occupazionale del post epidemia.
Tutto sta, appunto, nel trovare un accordo di reciproca convenienza e correttezza tra i paesi interessati: la procedura di modifica dello Statuto della BEI è prevista dallo stesso art.308 TFUE e si incentra su una deliberazione unanime del Consiglio Ue; lo stesso organo che potrebbe, contestualmente, prevedere una liquidazione o modificazione dell’ESM, e l’attribuzione alla BEI del suo capitale sottoscritto e versato (che altrimenti gli Stati contribuenti non rivedrebbero mai…).
Basta che ci sia un forte accordo politico e la coscienza di dover agire rapidamente, di fronte a un livello di recessione e di caduta degli scambi, che potrebbe travolgere l’intera Unione e la sua pericolante aspirazione a un “mercato unico”.

Di Luciano Barra Caracciolo e Antonio Maria Rinaldi


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