“No Deal”

Guerra di dazi: globalizzazione e esportatori nel mirino

Dopo un’effimera tregua, i negoziati sino-americani per riequilibrare il disavanzo commerciale degli Stati Uniti si sono arenati: Washington ha esteso i dazi ad altri 200 $mld di merci cinesi, continuando il giro di vite iniziato lo scorso autunno. A distanza di pochi giorni, Pechino ha risposto aumentando i dazi su 60 miliardi merci americane: i mercati finanziari hanno subito incassato il colpo, scontando l’incancrenirsi della guerra commerciale con le pesanti ricadute globali in termini di crescita. Difficilmente Washington rimpatrierà posti di lavoro adottando questa politica: ciò che interessa agli angloamericani è far deragliare l’attuale globalizzazione, per acuire i nazionalismi economici e destabilizzare i grandi produttori/esportatori (Germania compresa). La probabile saldatura con la No Deal Brexit.

“No Deal China”

Il disavanzo commerciale degli USA nei confronti della Cina, pari a un deficit annuo di 500 $mld di dollari (a lungo finanziati dall’acquisto cinese di debito pubblico americano), è sempre stato in cima all’agenda dell’amministrazione nazionalista-populista di Donald Trump. La retorica anti-cinese aveva già contraddistinto la campagna elettorale di Trump nel 2016 e, dopo una serie di lunghe accuse, dalla manipolazione dello yuan al furto della proprietà intellettuale, nell’autunno 2018 si era arrivati al primo round di dazi: su 200 $mld di merci cinesi, le imposizioni fiscali erano saliti dal 10 al 25%. A inizio del dicembre scorso, Washington aveva quindi dichiarato una “tregua”, ossia nessuna ulteriore stretta, e l’avvio di negoziati per ricomporre le relazioni commerciali: certo, la scelta del negoziatore, il “falco” Robert Lighthizer, lasciava presagire la volontà americana di arrivare ad una rottura. Così infatti è stato: venerdì 10 maggio, l’amministrazione Trump ha annunciato il clamoroso fallimento delle trattative, ossia il “no deal”, lasciando che i dazi passassero dal 10 al 25% per un’altra corposa fetta (250 $mld) dell’import annuale dalla Cina. A questo punto, Pechino, calcolati i pro ed i contro con la solita flemma, ha reagito, innalzando i dazi al 25% su altri 60 $mld di merci importate dagli Stati Uniti (la Cina compra annualmente beni per 120 $mld dagli USA)1. Si noti che i dazi cinesi colpiscono essenzialmente materie prime (grano, mais, soia, carni), “specialità”, a basso valore aggiunto, degli Stati Uniti.
Tra venerdì e lunedì le piazze finanziarie internazionali hanno accusato pesanti perdite, scontando gli effetti dello scontro commerciale sempre più aspro tra USA e Stati Uniti. Un’escalation di dazi (nient’altro che nuove tasse per imprese e consumatori e quindi maggiori costi) rischia infatti di indebolire la crescita mondiale, di cui la Cina è stata il motore indiscusso nell’ultimo decennio, e causare una recessione che non risparmierebbe nessuno. Non solo, quindi, gli Stati Uniti non rimpatrierebbero nessuno posto di lavoro (le filiere produttive sono scomparse da anni e non basteranno certamente i dazi a farle rinascere), ma rischiano concretamente di provocare un rallentamento generalizzato che finirebbe col colpire il loro stesso mercato del lavoro. Possibile che l’amministrazione Trump, composta dal fior fiore di Goldman Sachs (il segretario al Tesoro, Steven Mnuchin, in primis), non ne sia consapevole? Perché nessuno valuta i modesti vantaggi e gli enormi rischi di una guerra commerciale contro la Cina? La risposta è semplice: i moventi della politica americana sono di natura geopolitica e non commerciale. Una probabile recessione globale, la caduta generalizzata della domanda e l’aumento della disoccupazione sono considerati semplici mezzi per raggiungere precisi fini di politica estera.
Sull’argomento abbiamo già scritto circa sei mesi fa, nella nostra analisi geopolitica per li 2019: Washington e Londra, collassata l’Unione Sovietica, si sono fatte garanti di ordine mondiale che, a distanza di trent’anni, non è più conveniente, ma addirittura svantaggioso. Nell’attuale economia globalizzata, infatti, i grandi vincitori (cioè le potenze che hanno conosciuto un indiscusso aumento di forza e prestigio dopo la fine della Guerra Fredda) sono la Cina e la Germania. Due potenze continentali, contrapposte a quelle marittime anglosassoni, che hanno prosperato producendo beni di qualsiasi tipo, dalle macchine utensili ai computer, per il resto del mondo, giovandosi del WTO (la Cina) e del WTO con l’aggiunta del mercato unico europeo (la Germania). Si noti che questa naturale affinità tra Pechino e Berlino si sia trasformata in questi ultimi anni in una fitta rete di legami diplomatici-economici-infrastrutturali: l’industria automobilistica Geely è il primo azionista di Daimler-Mercedes, Huawei ha avuto via libera per il 5G in Germania nonostante gli ammonimenti americani, il terminale della “Via della Seta” continentale è proprio la tedesca Duisburg, sul dossier iraniano Berlino è più vicina ai cinesi che agli americani, etc. etc. La crescente forza della Cina (e in misura minore, ma comunque già apprezzabile, della Germania, se si pensa al Nord Stream 2) le sta permettendo di “organizzare” l’Eurasia e l’Africa, disseminando ovunque ferrovie, porti e grandi investimenti, incontrando l’ovvia resistenza delle potenze atlantiche.
La distruzione della cornice (WTO, UE, libero scambio) in cui la Cina (e la Germania) prospera, è quindi una priorità per Washington, che da garante della globalizzazione si sta trasformando, come negli anni ‘30 del Novecento, in bastione del nazionalismo economico e del protezionismo, con l’obbiettivo di esportare il modello “autarchico” all’estero. In questo senso, i dazi, la recessione globale e le pesanti ripercussioni sui mercati finanziari sono solo strumenti per finalità geopolitiche: all’amministrazione Trump non interessa il benessere dell’operaio di Detroit, ma l’effetto destabilizzante che i dazi producono sui Paesi manifatturieri/esportatori in Asia ed Europa. Per quanto concerne la Germania/Unione Europea, l’amministrazione Trump ha adottato una politica di dazi mirati contro il settore auto2 e minacciato di introdurre dazi generalizzati (compreso il settore alimentare, leggasi Italia e Francia) in rappresaglia agli aiuti di Stato ad Airbus3: come nel caso di Pechino, anche Bruxelles ha minacciato rappresaglie, tassando le merci americane per un pari importo. I casi di Cina e Unione Europea sono però profondamente diversi tra loro: mentre la prima è uno Stato-nazione in grado di resistere agli choc esterni con misure anti-cicliche, la seconda è un fragile organismo sovranazionale, già duramente provato dalla crisi economica nei Paesi mediterranei, dall’affermazione dei sovranismi-populismi di chiara matrice anglosassone (vedi The Movement di Steve Bannon) e dall’estenuante divorzio tra Bruxelles e Londra. Una guerra commerciale tra Cina e USA, rallentando l’economia mondiale, rischia di esacerbare ulteriormente i rapporti all’interno della UE e di indebolire i già fragili Paesi mediterranei, caricando un peso insopportabile sulle spalle dell’Unione Europea: se poi al “No Deal China” si aggiunge il “No Deal Brexit”, con le sue esplosive ricadute commerciali e finanziarie, il quadro è completo.
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1https://www.bbc.com/news/business-48173020
2https://it.reuters.com/article/companyNews/idUKKBN1JI1YF
3https://www.france24.com/en/20190409-usa-threatens-tariffs-eu-goods-over-airbus-subsidies

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