Il mancato trionfo alle elezioni e le ostilità all'interno
dei Tories potrebbero indurre il Primo Ministro, politicamente traballante, ad
ammorbidire la linea sull'uscita dall'Europa.
Le elezioni inglesi più che un richiamo all’ordine lasciano
un segno indecifrabile, legato forse all’utopia, o all’eutopia come avrebbe
detto il famoso economista inglese Keynes. La vittoria zoppa (hung parliament),
e mortificante date le premesse, del Partito Conservatore di Theresa May
segnalano una nuova fase di stallo sulla Brexit, l’uscita del Regno Unito
dall’Unione Europea a trazione tedesca, con l’internazionalità ritrovata della
sterlina inglese sui mercati internazionali. Nessuno dei due principali partiti
– il Labour capeggiato da Corbyn e i Tories dell’attuale premier inglese – è
riuscito ad accaparrarsi lo scorso 8 giugno la maggioranza assoluta dei seggi
in Parlamento. Anzi. E’ assai probabile che il risveglio degli elettori più
giovani, che hanno votato in prevalenza Labour- sia un messaggio tardivo ma
chiaro sull’abbandono del Regno Unito dal ponte costruito in questi ultimi
decenni con l’Unione Europea.
Alle ultime elezioni il Partito Conservatore ha ottenuto 318
seggi, meno dei 326 che consentono di ottenere la maggioranza nella House of
Commons. Il Labour ha conquistato la giovane e multietnica Londra, che si era
espressa massicciamente contro la Brexit un anno fa (Fonte: BBC)
Il risultato del voto riassume le contraddizioni di un
passaggio epocale per la storia recente della Gran Bretagna. E’ una situazione
già accaduta durante il primo governo di David Cameron, nel 2010, quando
l’allora primo ministro inglese non avendo la maggioranza all’interno della
House of Commons siglò un’intesa con i liberal-democratici, il partito di
centro guidato da Nick Clegg. Ma la scommessa persa dai Tory in questa fase è
anche il fallimento dell’armamentario ideologico portato avanti dalla Brexit in
poi. Avremmo assistito ad un cambio di paradigma evidente se dal culto
dell’individualismo di Margaret Thatcher per cui “la società non esiste” (ci
sono solo individui e famiglie) si fosse definitivamente passati ad un nuovo
impegno nei confronti della propria comunità. Il manifesto del Partito
Conservatore attualmente propone proprio questo: un’evoluzione amplificata e
maggiormente paternalista della Big Society di David Cameron. Theresa May ha
però perso questa scommessa, non è riuscita a tenere a bada la nuova domanda di
ulteriore sovranismo proveniente dal suo maggior competitor, Jeremy Corbyn,
anch’esso considerato un outsider di sinistra del partito Laburista,
specialmente dopo il decennio di Tony Blair a Downing Street.
“Non solo i pochi privilegiati” e “Un paese che funziona per
tutti”, questi gli slogan che Theresa May aveva fatto propri durante la
campagna nazionale per la leadership del Partito Conservatore. Promessa di una
rottura rispetto all’eredità thatcheriana rivelatasi insufficiente per
(stra)vincere le elezioni.
Il radicalismo dei rispettivi leader offre ricette comuni,
legate ad una maggiore domanda di welfare e ad una rinnovata fiducia nei
confronti dello Stato. Tuttavia, le elezioni anticipate fondate su un nuovo
equilibrio sovranista tra i due principali partiti del sistema inglese sono
state un fiasco per chi le ha indette, anche se Theresa May formalmente le ha
vinte con il 42% dei consensi e anche se complessivamente la democrazia
britannica ne è uscita rafforzata visto il basso numero di astenuti tra gli
elettori. Tocca ora governare, e non sarà facile un ritorno della centralità di
Westminster senza una leadership forte e stabile, nonché senza una maggioranza
assoluta in Parlamento. I negoziati per la Brexit sembrano preludere ad un
accordo inevitabilmente al ribasso per gli inglesi. E la May è ad un bivio
perché dopo i risultati del voto dovrà inevitabilmente riformulare le sue
precedenti posizioni che spingevano per un hard Brexit, senza compromessi né
mediazioni di alcun genere.
Nel frattempo la sterlina è ai minimi da 9 mesi,
l’inflazione è in aumento dal 2,7% al 2,9% ben al di sopra dell’obiettivo
prefissato dalla Banca d’Inghilterra al 2%. Questo crea già adesso seri
problemi ai salari reali britannici che vedono erodersi le proprie retribuzioni
dall’aumento dei prezzi. Più equilibrata sembra essere la gestione delle
finanze statali e questo è il vero merito dei leader inglesi che hanno
affrontato negli ultimi anni la crisi economica. Come preannunciato
dall’attuale cancelliere dello scacchiere, il ministro delle finanze inglese
Philip Hammond, il deficit pubblico verrà ulteriormente ridotto, portandolo
sotto al 2% del Pil. Ma è proprio la crescita che favorirà l’annunciata
austerità fiscale visto che, per il momento le stime evidenziano un Pil sopra
il 2%. Si mantiene in questo modo l’equilibrio inglese tra il controllo del
deficit pubblico e un pericolante deficit estero dovuto ad un aumento delle
importazioni, sbilanciamento che trova una spiegazione nella struttura
finanziaria di Londra e nelle pericolose politiche commerciali mercantiliste
della Germania, di cui l’Inghilterra è uno dei principali importatori.
Spesa sociale in percentuale del PIL (elaborazione della
redazione su dati OCSE)
Entrambi i contendenti, sia Corbyn che la May, sono riusciti
ad arginare l’UKIP, il partito euroscettico e anti-immigrazione di Nigel
Farage, ma dal punto di vista economico entrambi, in modo diverso, avevano e
hanno lo spazio fiscale per poter testare una maggiore spesa sociale. La realtà
interna del welfare inglese è molto diversa rispetto a quella di altri stati
maggiormente assistenzialisti, come la Francia, la Danimarca o l’Italia; un
indicatore sintetico della stabilità delle finanze pubbliche d’Oltremanica
consiste nella social spending; nel 2016, tanto per fare solo un esempio, la
spesa sociale britannica si è attestata al 21,5% del Pil, in linea con la media
OCSE, ma assai inferiore rispetto al welfare state francese (31,5% del Pil) a
quello dei paesi scandinavi (Svezia e Danimarca nel 2016 hanno speso in media
il 29% e il 28.7% del Pil) e all’Italia (30% del Pil) che, di simile ai paesi
succitati ha il livello di pressione fiscale piuttosto che la qualità dei
servizi pubblici. Naturalmente una dimensione assai contenuta della spesa
welfaristica può concedere alla Gran Bretagna e ai suoi principali partiti
svolte ideologiche azzardate che i politici di altri paesi possono solo sognare
di fare. O che promettono comunque, ma restano materiale per illusionisti.
Che le traversie dei partiti tradizionali britannici possano
favorire l’ascesa di un Macron Oltremanica?
Anche sul lato delle entrate per adesso la situazione
inglese vede le proprie imprese pagare tra il 20% e il 30% di tasse in meno
rispetto all’Italia. In questo senso, le proposte che provengono dal partito
neosocialista di Corbyn si caratterizzano per concentrare l’onere della
tassazione sui più ricchi; d’altro canto anche il manifesto del Partito
Conservatore, dipinto di rosso a rappresentare la tradizione dei conservatori
“di sinistra”, i cosiddetti Red Tories, abbraccia una linea volta a limitare la
diffusione della ricchezza per combattere le crescenti diseguaglianze –
specialmente tra città e campagna – presenti all’interno del paese. Se almeno
internamente le intenzioni rispetto ad un anno fa non cambiano e rivoltano come
un calzino la centralità del free-market inglese, all’esterno tutto dipenderà
da come verranno condotti i negoziati sulla Brexit. La tempesta scatenata con
le elezioni anticipate che non hanno visto un autentico vincitore potrebbero
creare ulteriore imprevedibilità. Se Theresa May non riuscisse a ottenere un
accordo vantaggioso per il proprio paese – vale a dire preservare la piazza finanziaria
di Londra per il mercato dei capitali e assicurarsi nuove possibilità di
concorrenza fiscale sul mercato dei beni – le ricadute politiche potrebbero
tradursi in una ulteriore spaccatura all’interno del Partito Conservatore,
magari con una convergenza di alcuni Tories verso il centro dello spettro
politico, attualmente occupato dal partito liberal-democratico. A quel punto la
May cadrebbe definitivamente. E molto probabilmente potremmo assistere anche in
Inghilterra, come di recente in Francia, alla nascita di un nuovo Macron.
di Nicolas Fabiano - 19 giugno 2017
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