La Germania contro tutti
Le politiche economiche e commerciali dell'Unione Europea a
guida tedesca non piacciono né a Trump né alla Cina. La Merkel sta guidando
imperterrita l'Unione Europea contro le grandi potenze economiche, ma nessun
governo sembra voler evitare il suicidio assicurato.
Il 25 Gennaio Ted Malloch, primo candidato a essere nominato
ambasciatore degli Stati Uniti per l’Unione Europea, in un’intervista alla BBC
ha dichiarato di essere molto incerto sul futuro dell’euro, il quale potrebbe
collassare nel giro di un anno, un anno e mezzo. Il professore, la cui
autobiografia lascia comprendere molto già dal titolo (Davos, Aspen e Yale: la
mia vita dietro la Corte delle Élite come Sherpa globale), non ha fatto sconti
all’Unione Europea, definendola “un’organizzazione sovranazionale, non eletta e
piegata alla Germania”. Il 31 Gennaio Peter Navarro, il capo del Consiglio per
il Commercio di Donald Trump, ha definito l’euro come un “marco travestito”,
aggiungendo che “lo squilibrio strutturale degli scambi che la Germania ha con
il resto dell’UE e con gli USA riflette l’eterogeneità economica dell’Ue.”
È
sempre di fine Gennaio lo studio di Mediobanca riservato ai suoi clienti più
importanti, per cui uscendo dall’euro l’Italia risparmierebbe 8 miliardi di
euro. Riportato da Nicola Porro su il Giornale, lo studio prende in seria
considerazione l’Italexit: senza crescita e con la previsione che i tassi di
interesse aumenteranno, il debito diverrà insostenibile. Considerando anche che
i no euro (Fratelli d’Italia – Lega Nord e Movimento 5 Stelle) hanno un peso
politico non irrilevante, la negoziazione del debito e l’uscita dall’euro con
la relativa conversione del debito in lire sono due opzioni non più
trascurabili. Non a caso i sondaggi del gruppo di ricerca Sentix a Maggio
davano la probabilità dell’uscita dall’euro dell’Italia nei successivi dodici
mesi allo 0,8%, mentre a Novembre era arrivata al 19%: davanti persino alla
Grecia. In aggiunta a tutto ciò, non ha meritato la giusta attenzione mediatica
lo studio accademico dell’Ottobre scorso dell’OFCE (Observatoire Français des
Conjonctures Economiques), firmato dagli economisti Cedric Durand (professore
all’Università di Parigi Nord) e Sebastien Villemot (esperto di debito
pubblico). Il paper Bilanci del dopo Unione Monetaria Europea: una valutazione
del rischio di ridenominazione mostra come in caso di uscita di un singolo
paese dall’euro o in caso di fine generale dell’euro-zona, l’Italia sarebbe il
paese meno a rischio.
Tabella riassumente il livello di rischio composito dei paesi
dell’Eurozona in caso di uscita dall’unione monetaria. Fonte: Durand C. e
Villemot, S. (2016). Balance Sheets after the EMU: an assessment of
redenomination risk. OFCE Working Paper 2016-31.
In tutto questo Mario Draghi continua la sua imperterrita
battaglia a difesa dell’euro, seguendo il principio che va difeso “a qualsiasi
costo”. Nonostante ciò, egli stesso ha ammesso che uscire dall’euro è
possibile: basta pagare il debito. Sì, i trattati dicono che è irreversibile,
ma tutti sappiamo che non sono eterni e immutabili. Lo stesso Draghi non ha
potuto esimersi dal riconoscerlo, seppur implicitamente, mostrando che di
fatto, nel 2017, il Re Euro è nudo.
1970
1975
1980
1985
1990
1995
2000
2005
2010
2015
Il surplus di qualcuno è sempre il debito… di qualcun’altro
L’Euro non piace quindi agli Stati Uniti d’America perché,
come hanno detto Ted Malloch e Peter Navarro, è una moneta contro i loro
interessi e tutta a favore di un’unica nazione: la Germania. Del resto prima o
poi questo momento sarebbe arrivato. Già nel 1978 il segretario di stato degli
USA Cyrus Vance dichiarava, in un cablogramma pubblicato da Wikileaks:
“Dobbiamo bilanciare i nostri interessi di lungo periodo
nell’unità europea come uno dei pilastri della nostra politica, con prudenza,
per perseguire con continuità gli interessi economici e finanziari degli Stati
Uniti. Tuttavia, un sistema monetario europeo potrebbe ridurre la flessibilità
del tasso di cambio nei confronti del resto del mondo, indebolendo il processo
di aggiustamento internazionale, impartire una bias deflazionistico [deflazione
e bassa crescita, ndr] di lungo periodo nell’economia globale o diminuire le
predisposizioni istituzionali esistenti del sistema monetario mondiale.”
Parafrasando, l’unità dell’Europa è sempre stata spinta
dagli USA per motivi geopolitici, ma già dalla fine degli anni ’70 si temeva
che adottare una moneta unica per più stati, con economie molto differenti,
avrebbe portato a deflazione, dunque al drastico blocco della crescita
mondiale. Che l’Euro avrebbe intralciato gli obiettivi dell’economia statunitense
era stato previsto: prima o poi la Germania avrebbe fatto i conti con la
potenza a stelle e strisce.
Il cablogramma pubblicato da Wikileaks riportante le
affermazioni fatte dal segretario di stato american Vance nel 1978 in merito al
rischio di bias deflazionistico che avrebbe potuto essere indotto dalla
costruzione di un’unione monetaria in Europa.
Non sono solo gli Stati Uniti a non apprezzare le politiche
economiche della Germania: anche l’altra grande potenza mondiale, la Cina, non
vede positivamente l’Unione Europea a guida tedesca. Lo scorso Marzo
l’economista cinese Zhao Ke pubblicò su Chinese Social Sciences Today un
articolo intitolato La crescita della Germania rappresenta una sfida per la
Cina ? nel quale si domandava se un’Europa a guida tedesca possa essere più
amichevole e favorevole alla Cina, affermando che “la leadership della Germania
in Europa diminuirà in maniera considerevole i nostri costi di transazione con
l’Europa, ma non possiamo perdere di vista il fatto che gran parte dell’élite
politica tedesca vede la Cina come uno sfidante piuttosto che come un partner.
[…] Se il punto di vista tedesco sulla Cina resterà immutato, l’Europa a guida
tedesca renderà senza dubbio molto più difficile per la Cina gestire il suo rapporto
con l’Europa nel lungo termine”. Riprendendo l’intervento di Vladimiro Giacché
al convegno La Via Cinese e il contesto internazionale tenutosi lo scorso
Ottobre a Roma, la politica commerciale tedesca tende ad una vera e propria
guerra commerciale con la Cina piuttosto che alla stabilità internazionale. In
particolare ciò è causato da una politica economica aggressiva, in avanzo
commerciale strutturale e di lungo periodo sul resto del mondo, esportatrice di
deflazione e che deprime i consumi interni, privando la Cina, tra l’altro, di
un essenziale mercato di sbocco.
L’Unione Europea non è minimamente eterogenea dal punto di
vista commerciale. Nel settore manifatturiero a fine 2015 aveva un deficit di
180 miliardi di euro nei confronti della Cina, mentre godeva di un avanzo di 10
miliardi nel settore dei servizi. Ma il deficit non è per nulla uniforme, come
mostra il grafico sottostante: tutti i paesi sono in disavanzo tranne la
Finlandia e, soprattutto, la Germania, che dopo la crisi si è proiettata maggiormente
sul mercato orientale, pur continuando a privilegiare maggiormente i paesi
Europei e gli Stati Uniti d’America. Per questo motivo e per quelli
precedentemente riportati, considerando anche che nessun paese considera più
l’euro e l’Unione Europea istituzioni eterne, è facile comprendere come la Cina
privilegerà in misura sempre maggiore i trattati bilaterali con i singoli paesi
ai trattati commerciali direttamente con l’Unione Europea. Ossia continuerà, in
maniera più convinta, la strada intrapresa a metà 2016 iniziata con gli accordi
con Ungheria, Repubblica Ceca e Polonia.
Bilancia commerciale degli stati membri dell’Unione Europea
nei confronti della Cina nel 2015. Si noti il surplus netto della Germania.
Dunque l’Unione Europea a guida tedesca e la relativa
moneta-istituzione con cui opera, l’euro, non piace né a Occidente, né a
Oriente. Ma almeno internamente l’Unione Europea è unita e coesa, o no? Sebbene
sembri ironia, non lo è del tutto. Ovviamente non è coesa: basta guardare la
Brexit e il crescente allarme con cui le élite europee vedono le future
elezioni politiche in vari paesi, dove i partiti anti-europeisti sono in
continua crescita. Inoltre se da una parte i paesi maggiormente colpiti dalla
crisi esultano ogni qual volta Draghi prolunga il quantitative easing, perché
il non farlo segnerebbe il loro default, d’altra parte la Germania ne chiede
l’immediata fine, vista l’inflazione a +1,9% e le preoccupazioni riguardo le
proprie banche, che sarebbero secondo loro le uniche a essere danneggiate da
bassi tassi di interesse. Dall’altro lato però la crescente desovranizzazione
dei paesi dell’Unione Europea, in particolare quelli dell’euro-zona, li porta a
non considerare i propri interessi nazionali e a non porsi seri interrogativi
su che strategia adoperare per evitare ulteriori duri colpi. L’Unione Europea
sembra coesa, cioè, soltanto nell’andare a tutta velocità contro un muro. O,
meglio, nessun governo attuale sembra intenzionato a scendere dal treno guidato
dalla Germania, imperterrito nel voler sfidare sia gli Stati Uniti che la Cina.
Inutile dire che contro le due principali potenze mondiali, e la crescita non
irrilevante degli anti-europeisti, il destino non è certo quello di uscirne
vincitrice. L’Italia, avesse un governo competente che opera per i propri
interessi, abbandonerebbe la Germania immediatamente, prima che questa la porti
assieme a sé a farsi esplodere come kamikaze.
di Alessio Pizzichini - 17 febbraio 2017
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