Diagnosi della crisi bancaria italiana
Bail out, bail in, bad bank. Tutte false soluzioni all'instabilità degli istituti di credito, giacché il vero problema è il cuore del sistema: la banca mista.
Sono mesi ormai che nelle pagine di giornali e nei servizi
televisivi protagonista assoluta è la crisi del sistema creditizio, a
cominciare dal caso MPS (Monte dei Paschi di Siena). Attualmente a tenere
banco, nell’ambito delle vicende di MPS, è la polemica relativa ai grandi
debitori insolventi i cui inadempimenti avrebbero contribuito agli squilibri
della banca. Ma come mai le banche italiane, siano esse grandi o popolari,
barcollano da anni come ubriache senza apparente possibilità di riprendersi
dalla sbornia, nonostante i continui interventi statali e della Banca Centrale
Europea? Forse una spiegazione c’è.
MPS, il caso
Prima di tutto ripercorriamo, per un attimo, le tappe
principali della crisi del “Monte”, le cui cause non sono affatto dissimili da
quelle di altri istituti “diversamente sani”. Tutto ha inizio con lo scandalo
di Mps del 2013, quando all’ex presidente Giuseppe Mussari vengono contestati diversi
reati, tra cui manipolazione dei mercati e ostacolo alle attività di vigilanza.
Mussari infatti fa parte dei “ragazzi di via Rosellini”, un’élite di quindici
amministratori e brokers finanziari che nella sala operativa della sede
milanese del Monte dei Paschi gestivano e muovevano decine e decine di
miliardi, rigorosamente investiti in azzardi speculativi.
Giuseppe Mussari, presidente di Mps dal 2006 al 2012,
allontanato da Rocca Salimbeni dopo la maldestra acquisizione di Banca
Antonveneta
Tra le manovre del gruppo l’acquisto di Banca Antonveneta,
comprata per la bellezza di 10 miliardi senza aver prima avuto l’accortezza di
verificare i bilanci dell’istituto, che si dimostrarono essere un vero
colabrodo. Un tentativo maldestro del numero uno di Mps fu quello di cercare di
coprire il dissesto finanziario, pagato ovviamente coi soldi dei clienti, ma
una falla tanto grossa non può essere coperta. Avrebbe detto il commissario
Giraldi, impersonato da un eccezionale Tomas Milian:
«Chi caga sotto la neve, pure se fa la buca e poi la
ricopre, quando la neve si scioglie la merda viene sempre fuori»
Scoperto l’intrigo, Mussari viene allontanato e sostituito
da un manager di illustre fama, Alessandro Profumo, che dopo numerose fumate
nere riesce finalmente a convincere il consiglio di amministrazione della banca
ad aumentare il capitale di cinque miliardi, tramite l’immissione sul mercato
di nuove azioni. L’operazione sembra dare respiro a MPS, e le acque si
tranquillizzano…in superficie.
Sala San Donato – Palazzo Salimbeni, sede storica della
Monte Paschi a Siena
Nel 2016 infatti si torna a parlare della banca toscana,
giacché quest’ultima, apparentemente sanata, era in realtà stata imbottita di
farmaci per cercare – invano – di far fronte al grande tumore che covava in
seno: i NPL, non-perfoarming loans (crediti deteriorati). Questi sono prestiti
di cui la riscossione del credito è molto incerta, a causa dei “cattivi”
debitori che, per un motivo o per un altro, non sono in grado di adempiere ai
loro obblighi debitorii. Però di crediti “deteriorati” (questo il termine con
il quale vengono indicati i NPL, e non soltanto) di solito le banche ne hanno
sempre qualcuno, solo che in questo caso Mps -insieme ad altre banche- di
queste schifezze ne è piena zeppa. La storia, stranamente, non sembra affatto
nuova, se ripensiamo ai processi di cartolarizzazione che nel 2008 hanno
portato alla crisi immobiliare americana, estesasi poi a tutto il mondo. Tanto
è simile che Steve Eisman, il banchiere americano che scommise -vincendo-
contro banche solidissime come Lehman Brothers, mentre tutti le credevano
solidissime, ha scommesso anche contro le nostre banche:
«Sono piene di crediti marci, ma fanno finta che valgano il
doppio»
Dall’Europa intanto arriva l’ordine di vendere e quindi
liberarsi di gran parte di queste sofferenze, ma essendo troppe, il banco di
MPS zompa, di nuovo. Ecco allora che dal CDA del Monte ritentano la strada
dell’aumento di capitale, ma la formula viene cassata. Ci pensa quindi il
governo italiano che, nei giorni di Natale dello scorso anno, decide di fare un
regalo ad MPS, varando il decreto “salvarisparmio”, che prevede un fondo da 20
miliardi (di soldi pubblici, quindi di tutti) da utilizzare per “salvare” il
sistema creditizio italiano, di cui ben 8,8 vengono destinati alla banca
senese, di cui ora il ministero del Tesoro è diventato socio di maggioranza.
Negli ultimi giorni intanto il dito è stato puntato contro “i grandi debitori”
delle banche “salvate”, a partire dal presidente dell’Abi (Associazione
Bancaria Italiana) Antonio Patuelli, che ha proposto di rendere noti i nomi dei
grandi debitori insolventi attraverso una norma di legge; secondo Patuelli
infatti bisogna «far luce sui prestiti andati a male, perché sono noti coloro
che amministravano queste banche, sono ignoti coloro che invece non hanno
restituito i prestiti alle medesime banche». Questa mossa però ha evidentemente
tutto un altro significato, ossia, al solito, di distrarre da chi è davvero
colpevole, un gioco a cui gli “utili idioti” del Movimento 5 Stelle si sono
subito prestati, invocando disperatamente il diritto di conoscere quei nomi.
#Pignoriamoli tutti. Il M5S si presta all’appello
dell’Associazione Bancaria Italiana
Se infatti le banche sono piene di debiti, e questi debiti
sono dovuti in gran parte a gente che banalmente non ha restituito il dovuto,
colpa è stata prima di tutto degli amministratori, che hanno elargito con tanta
facilità il denaro in questione, e che si sono riempiti di debiti tossici.
Soprattutto, colpa delle banche è di aver utilizzato denaro pubblico, che era
stato dato loro per sanare gli ammanchi provocati dalle loro speculazioni
private, non per colmare i propri debiti e per dar credito a famiglie e
imprese, ma per continuare a speculare. Il discorso ovviamente non vale solo
per Mps, ma anche per tutti gli altri istituti che negli ultimi anni se la sono
vista maluccio, come ad esempio Banca Popolare di Vicenza, Veneto Banca,
Etruria, Carife, Marche, Caricheti. Carim e Caricesena. La colpa, allora, è
proprio dei gestori delle banche, ma prima ancora dello Stato, che non solo
continua a prestare soldi pubblici a gentaglia privata che, da par suo,
continua a sperperarli, ma ha re-introdotto, ormai negli anni novanta, la
formula della banca mista.
Dna istabile: la banca mista
La banca mista è un tipo di istituto dalle ampie possibilità
di manovra; essa è autorizzata a operare sia nel breve che nel lungo periodo,
ovvero in attività commerciali e finanziarie. Detto brutalmente, significa che
questo tipo di ente creditizio può svolgere contemporaneamente sia un’attività
“imprenditoriale”, come il concedere prestiti a famiglie o imprese, sia una di
investimento, e dunque consulenza finanziaria e investimenti diretti in titoli
azionari, obbligazioni, derivati e ogni strumento finanziario che venga emesso
sui mercati borsistici. Questo è stato certamente il modello più diffuso tra le
banche sin dalla fine dell’Ottocento, lo stesso modello che caratterizzava i
grandi istituti creditizi e finanziari i quali, in un famoso giovedì nero del
1929, fecero un enorme capitombolo.
Suicido a Wall Street il 24 Ottobre 1929, passato alla
storia come il Black Thursday, il Giovedì Nero, giorno del crollo di borsa che
inaugurò la crisi
Un crollo di uguale e anzi maggiore fragore, oggigiorno, è
stato quello già citato dei muti subprimes americani, nel 2008. Ma come è
possibile che tra i due più clamorosi crolli finanziari della storia sia passato
tanto tempo, e quindi ottant’anni, senza che nel frammezzo non ci sia stato un
sisma finanziario di pari portata? Se qualcuno sta pensando agli choc
petroliferi degli anni settanta è fuori strada, giacché in questa sede si sta
parlando espressamente di crisi del sistema bancario. Su questo punto torneremo
più avanti. Adesso cerchiamo di capire invece perché le banche, dopo il
famigerato 2008, non accennano a riprendersi, nonostante le tante soluzioni
adottate.
Bail out, ovvero: “le tiriamo fuori noi”
Con il bail out (letteralmente “tirare fuori”) si intende
tutta quella serie di manovre finanziarie messe in essere dalle istituzioni,
volte a salvare capra e cavoli, dunque le banche in crisi e i loro clienti. Le
manovre in questione sono rappresentate da immissioni di denaro sotto diversa
forma. Un caso è quello delle ricapitalizzazioni sostenute dallo Stato, ma
spieghiamoci: una banca per avere dei finanziamenti deve mettere dei titoli sul
mercato azionario. Queste azioni rappresentano quote di proprietà della banca
stessa, e chi le acquista ne diventa azionista. Il prezzo che quest’ultimo paga
va direttamente a finanziare l’istituto, mentre il lucro per lui può derivare
sia dal valore stesso delle azioni (che quando sale può rivendere, guadagnando
sulla differenza), sia dai profitti cui egli ha diritto, una quota sui guadagni
dell’azienda. Si tratta ovviamente di un investimento, pertanto può capitare
che anziché utili la banca produca perdite; in questo caso – purtroppo –
interviene lo Stato, che fa immettere nuove azioni dall’istituto di cui
garantisce l’acquisto, diventando a questo punto socio della banca, ora
“partecipata” statale, quindi sotto diretto controllo pubblico.
Altra via possono essere invece le immissioni della Banca
Centrale Europea, l’unica nell’area Euro a poter stampare denaro da immette nel
sistema; è il cosiddetto Quantitative Easing. La BCE va a comprare i titoli di
Stato (che si finanzia né più né meno come visto per la banca), la gran parte
dei quali è spesso al sicuro nei caveau – rieccoci qua! – delle banche, che la
BCE acquista proponendo un prezzo a vantaggio degli istituti creditizi. Logica
vorrebbe che questo vantaggio si concretizzasse in credito, ancora una volta,
per famiglie e imprese; ma la logica, come direbbe il Papa al marchese del
Grillo, è come la giustizia: «non è di questo mondo». Infatti le banche che
fanno? Tornano a speculare in borsa, e si fa come a Monopoli, si torna al via.
E adesso?
Il governatore della BCE, Mario Draghi, annuncia l’avvio del
Quantitative Easing nel Gennaio 2015. Dall’inizio del programma, la cui durata
è stata estesa fino alle fine del 2017, la BCE ha acquistato più di 1500
miliardi di euro tra titoli pubblici e privati (cifra netta).
#Bail-in, ovvero: le tirano fuori i poveri cristi
Il Bail-in è una “regola” per il salvataggio in base alla
quale a risolvere il dissesto di un determinato istituto non devono essere i
contribuenti, bensì i soli azionisti, obbligazionisti e correntisti di quella
stessa banca. A prima vista la regola sembra essere più equa, giacché a pagare
gli azzardi di un istituto non devono più essere tutti i cittadini. Eppure
qualcosa comunque stride. Sottoporre una banca a “risoluzione” (il bail-in,
appunto) significa “avviare un processo di ristrutturazione”, che tradotto vuol
dire svalutare completamente le obbligazioni della banca, così da poter
parimenti svalutare le sofferenze bancarie. Solo che a rimetterci sono i
piccoli e medi investitori che hanno visto azzerare del tutto il loro credito.
C’è chi fa notare come questa operazione serva ad evitare un’ingiustizia, ossia
che i salvataggi bancari ricadano sull’intera popolazione; peccato che
l’alternativa sia parimenti ingiusta, giacché migliaia di obbligazionisti non
erano stati assolutamente informati dei rischi cui andavano incontro, e si
tratta spesso di risparmi del duro lavoro di una vita, ora dissolti nel vento.
Da aggiungere poi, che pur in caso di piena conoscenza, sarebbe comunque e a
maggior ragione un’ingiustizia che la speculazione di pochi privati sia pagata
col sangue dei lavoratori, come i semplici correntisti (con depositi superiori
ai 100.000 euro), la cui sola colpa è quella di aver depositato i propri
risparmi con la convinzione di averli messi al sicuro. Il risultato? I
risparmiatori sono finiti sul lastrico, la gente ha perso ulteriormente fiducia
nelle banche, e quest’ultime, indovina indovinello, sono ancora in crisi. E
invece, adesso, che facciamo? Un’ (in)opportuna via di mezzo, le “banche
cattive”.
Bad bank: la cartolarizzazione 2 la vendetta
Ormai è chiaro che le banche hanno un solo problema:
speculano con soldi altrui per azzardi privati, e se perdono lo Stato le
rifonde, e d’accapo tornano a investire. Ai grandi investitori infatti, se non
fosse chiaro, non gliene frega un belino dei conti in banca e dei risparmi di
lavoratori e famiglie, vogliono solo continuare a investire e guadagnare,
rigorosamente #kolkulodeglialtri. Pur di farlo si inventano di tutto, in maniera
più o meno fantasiosa, come appunto le bad bank. Queste, in breve, sono società
che si accollano i titoli tossici delle banche, che di solito sono crediti non
recuperati o difficilmente recuperabili. Le banche ovviamente non si disfanno
semplicemente e gratuitamente di questi titoli, perché altrimenti farebbero
prima a cancellarli, solo che per far ciò dovrebbero prima segnarli come
perdite in bilancio, ma essendo troppi questi titoli le perdite diventerebbero
insostenibili e le banche fallirebbero. Ecco allora il mefistofelico piano: le
banche cedono questi crediti “pericolosi” a delle società intermediarie, le
quali emettono dei titoli (obbligazioni) sul mercato “garantiti” (si fa per
dire) dai titoli tossici. Coi soldi dei compratori vengono pagati i crediti
alle banche, mentre coi soldi dei crediti riscossi vengono pagati gli interessi
dovuti agli obbligazionisti. Un sistema di questo tipo può essere al massimo un
palliativo, ma non una soluzione, e per capirci, è proprio per via di un simile
strumento che -si torna sempre lì-, le banche americane nel 2008 sono zompate.
GACS
Schematizzazione di un possibile piano di cessione delle
sofferenze tramite la creazione di una bad bank (nello schema SPV, stante per
special purpose vehicle), con utilizzo delle garanzie del Tesoro Italiano
(GACS). La bad bank, che agisce come agenzia di recupero crediti, si finanzia
emettendo bond garantiti dallo Stato.
Le colpe, si è visto, sono sempre state addossate al debito:
o è colpa dei titoli tossici che i CDA delle banche hanno acquistato -poverini-
in buona fede, convinti che fossero buoni, o soprattutto è colpa dei debitori
grandi e piccini che brutti e cattivi prendono i soldi e scappano senza
restituirli. Il problema, quello vero, è invece un altro, e finalmente arriviamo
al punto: tra il 1929 e il 2008 crisi bancarie non se ne sono registrate perché
non potevano esserci. Le banche infatti erano pubbliche, ovvero completamente
sotto controllo statale (e allo Stato non interessa speculare), e soprattutto
vi era una netta divisione degli istituti a seconda di quale attività volessero
intraprendere, come previsto in America dal Glass Steagall Act e in Italia
dalla Riforma Bancaria del 1936. Dunque da una parte le banche commerciali, che
si occupavano solamente di dare credito a imprese e famiglie, e dall’altra
quelle di investimento, che si occupavano solamente di speculare. Ora, tenere
rigorosamente le attività separate fa si che, banalmente , laddove una banca
faccia un investimento troppo azzardato e persino collassi (e sicuramente si
tratta di banche di investimento), l’altra non deve temere nulla, neppure un
centesimo, perché si tratta appunto sia di strutture che di conti completamente
separati, senza un titolo in comune. Questo bel gioco è durato fino agli anni
‘90, fino a quando cioè in Italia la legge Amato ha eliminato la
specializzazione degli enti di credito, che sono quindi tornati alla formula di
banca mista, e successivamente permesso la privatizzazione delle banche,
rimaste a lungo sotto il sicuro scudo statale. Lo stesso in America, nel ‘99,
ha fatto la presidenza Clinton.
Oggi però, ricordare simili -è giusto ripeterlo- ovvietà,
suona anacronistico quanto assolutamente inadatto a risolvere il problema.
Questo semplicemente perché ci hanno convinto che privato=benessere e
pubblico=debito e desolazione, in un mondo sempre più privatizzato e in cui
sembra normale, come riportato dal rapporto Oxfam, che un manipolo di otto
uomini da solo possieda la ricchezza di 3,6 miliardi di persone. Per lo stesso
motivo la privatizzazione viene esaltata come soluzione efficace e moderna, e
la nazionalizzazione un antico e pesante fardello del passato. Ma a smentire
chi ha queste idee basta poco, come girarsi indietro e tirare le somme degli
ultimi trent’anni, dai primi anni novanta a oggi; trent’anni di Unione europea,
di moneta unica, di trattati blindati, di globalizzazione e sovranità perdute.
Anni in cui la crescita è dello zero virgola, le imprese chiudono e il popolo è
affamato. Eh sì, proprio una gran bella cosa, la privata modernità.
di Guido Rossi - 19 gennaio 2017
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