Colpa della Brexit!?

alberto bagnai

Brexit, il rimedio dell’economia alle false isterie dei governanti

Il deficit pubblico esplode? Colpa della Brexit! Una canzoncina che sentiremo spesso, ma gli studi disponibili chiariscono che le cose non stanno così, e per capire perché basta considerare lo scenario peggiore, quello in cui la Gran Bretagna non riesce a concludere alcun accordo con l’Ue e deve applicare le regole dell’Organizzazione mondiale per il commercio (Omc): i famigerati dazi! Ora, basta andare sul sito dell’Omc per rendersi conto del fatto che questi non sono un enorme problema.
DI ALBERTO BAGNAI - 28 LUGLIO 2016
Ci siamo già detti che il vero nodo della Brexit è quello politico: ce lo confermano tanto la cronaca quanto un’analisi fattuale delle conseguenze economiche. Partiamo dal breve periodo. Il risultato del referendum ha scatenato una fisiologica ondata di volatilità sui mercati finanziari. La Borsa di Londra, che tifava “remain”, ha ceduto, recuperando in meno di una settimana. Il FTSE 100, che il 23 giugno era a 6338,1 una settimana dopo era a 6504,3. I media catastrofisti sono stati smentiti dai dati e dalle dichiarazioni di tante multinazionali che hanno confermato di non voler abbandonare Londra. Veniamo alla sterlina, che ha ceduto di circa il 10% rispetto al dollaro e dell’8% rispetto all’euro, stabilizzandosi in un paio di giorni. Non c’è stata la caduta libera di cui fantasticavano certi gazzettieri, ma non c’è stato nemmeno un recupero, né è prevedibile che ci sia. Il cambio della sterlina era sopravvalutato, per due motivi: la pesante svalutazione competitiva praticata da Draghi a partire dalla metà del 2014, che ha portato una sterlina a costare 1,4 euro (erano 1,2 a inizio 2014); le politiche di austerità imposta da Bruxelles, che hanno compresso i redditi dei cittadini dell’Europa continentale, e quindi, fra l’altro, i loro acquisti di beni inglesi, aggravando il deficit commerciale del Regno Unito.
Queste scaltre mosse dei nostri apprendisti stregoni hanno messo in difficoltà il resto del mondo, che ha reagito: la Cina a metà del 2015 (svalutando), gli Usa a fine aprile 2016 (mettendo la Germania nella lista nera dei manipolatori di valuta), e la Gran Bretagna approfittando della Brexit (ottima scusa per riportare il cambio alla casella di partenza, sfruttando razionalmente l’irrazionale isteria dei mercati). E nel lungo periodo cosa dobbiamo aspettarci? Dalla Brexit proprio niente. Il nostro problema è un altro: la crisi del sistema bancario, un’altra figlia dell’austerità, che ha compresso i redditi e quindi la capacità di famiglie e imprese di rimborsare i propri debiti. Certo, i politicanti useranno la Brexit come capro espiatorio. La banca tale salta? Colpa della Brexit! Il deficit pubblico esplode? Colpa della Brexit! Una canzoncina che sentiremo spesso, ma gli studi disponibili chiariscono che le cose non stanno così, e per capire perché basta considerare lo scenario peggiore, quello in cui la Gran Bretagna non riesce a concludere alcun accordo con l’Ue e deve applicare le regole dell’Organizzazione mondiale per il commercio (Omc): i famigerati dazi! Ora, basta andare sul sito dell’Omc per rendersi conto del fatto che questi non sono un enorme problema. Il loro livello medio all’interno dell’area Ocse (che esprime la maggior parte del commercio britannico) è inferiore al 2%. E voi pensate che l’Inghilterra, sopravvissuta a una svalutazione competitiva dell’euro pari a quasi il 20% sarebbe distrutta da dazi attorno al 2%? Chi pensa che verrebbero applicate percentuali punitive o chi teme che il prezzo del whisky raddoppierebbe ignora che la Gran Bretagna con le sue importazioni sostiene significativamente la crescita tedesca. Avete fatto caso alla prudenza della signora Merkel? Lei sa che le esportazioni nette della Germania verso la Gran Bretagna sono superiori a 35 miliardi di euro. Ma, si dice, c’è il settore finanziario: non sarebbe isolato dall’Europa? E questa non sarebbe una catastrofe per l’Inghilterra? Può essere utile ristabilire le proporzioni.
L’Eurostat chiarisce che la finanza conta per il 7,9% del Pil britannico. Più che in Italia (5,8%) ma meno che in Olanda (8,1%).Anche nel caso peggiore, quello di un’applicazione “punitiva” delle regole del Gats (l’accordo generale sul commercio dei servizi, disciplinato dall’Omc), l’Inghilterra non scomparirebbe dalle carte geografiche: ne rimarrebbe pur sempre il 92,1%! E poi, chi avrebbe un interesse economico a punire così la Gran Bretagna? Certo non le nostre illuminate élite, alle quali torna molto comodo far gestire i propri affari e i propri risparmi da un sistema finanziario solido perché supportato da una banca centrale che a differenza della Bce è libera da condizionamenti tedeschi e può quindi intervenire per tempo (come ha fatto dall’inizio della crisi). Insomma: alle élite conviene importare servizi finanziari inglesi (cioè mettere i loro soldi al sicuro) tanto quanto agli inglesi conviene esportarli (cioè farli fruttare).
Risalta ancora una volta come il terrorismo dei media risponda a una razionalità puramente politica: i nostri governanti vogliono scongiurare un evento che sta mettendo in luce la loro pochezza, indicando una strada che altri potrebbero essere tentati di seguire. Ma se in tanti vogliono uscire dall’Unione europea, la colpa è di chi l’ha concepita e di chi la governa, non di chi ha indicato la porta. Usare il pugno di ferro contro l’Inghilterra, vellicare i risentimenti nazionalistici della Scozia, insultare gli elettori inglesi servirà solo a confermare agli altri eventuali secessionisti che stanno facendo la cosa giusta.

Dimenticate la Brexit, Quitaly è la prossima preoccupazione dell'Europa. Dal Guardian

Dimenticate la Brexit, Quitaly è la prossima preoccupazione dell'Europa. Dal Guardian

Prima il timore di una Grexit, poi la Brexit. Ora l'incombente minaccia per l'Europa è una "Quitaly", il timore che l'Italia potrebbe decidere di averne avuto abbastanza della moneta unica e tornare alla lira, si legge sul Guardian

In parole povere, l'economia in Italia è in sofferenza ed è stato così negli ultimi due decenni, durante i quali non vi è stata praticamente nessuna crescita e le merci italiane sono diventate meno competitive nei mercati di esportazione.

La crescita lenta e alti livelli di disoccupazione riflettono l'alto livello di crediti inesigibili che sono ora stanno affossando le banche italiane. Le sofferenze bancarie sono quasi raddoppiate  negli ultimi cinque anni, a € 360 miliardi, e ora rappresentano il 18% di tutti i prestiti in portafoglio.

Ciò che è chiaro, però, è che i crediti non esigibili riflettono un'economia non in salute. Essi sono il sintomo del problema e non la sua causa.

A differenza di Grecia, Irlanda o Spagna, l'Italia non è passata attraverso un periodo di boom economico prima della grande recessione del 2008-09. Invece, la sua performance è stata incessantemente povera. L'economia si è contratta del 10% rispetto a prima della crisi finanziaria e, di conseguenza, la disoccupazione è alta, soprattutto nella parte meridionale del paese. Prima di entrare a far parte dell'euro, l'Italia sarebbe stata in grado di farsi più competitiva svalutando la lira. Tale facoltà non è più disponibile.

Il rischio, quindi, è ovvio. L'Europa subisce un nuovo rallentamento sulla scia dello shock impartito dalla Brexit. Un già debole Italia soffre più di tutti e le sue banche iniziano a fallire. Ai piccoli investitori viene detto che le norme europee impongono loro di assumersi alcune delle perdite.

Il governo di Matteo Renzi perde potenza, tallonanto dal Movimento Cinque Stelle, che ha promesso di indire un referendum per lasciare l'euro. Dato lo stato dell'economia,  una Quitaly non può essere esclusa. Se dovesse succedere, per la moneta unica sarebbe la fine

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