La resa dei conti


Grecia: siamo alla "resa dei conti" (letteralmente)


I problemi della Grecia non si possono più nascondere dietro le prese di posizione del governo di Tsipras e dietro le aperture (più verbali che altro) della Commissione europea, della Banca centrale e soprattutto della Germania. Un Paese che è gravato da un debito pubblico del 180% sul Prodotto interno lordo non dispone infatti di alcun margine di manovra ed è costretto a contare sulla “benevolenza” dei propri creditori internazionali che, questa è la speranza, dovrebbero rinunciare a buona parte dei soldi che hanno imprestato ad Atene. Oltre alla stessa Bce e al Fondo monetario internazionale, si tratta di banche, già gravate da una inadeguata patrimonializzazione rispetto alle proprie attività, come la Bce ripete ad ogni occasione. Ne consegue che si tratta di una strada che avrebbe effetti domino dalle conseguenze imprevedibili. 

La realtà è che tutti sono indebitati con tutti. Gli Stati come le banche. Una realtà che viene occultata perché è stato questo “effetto leva” che, come negli Stati Uniti, ha consentito di avere un po' di crescita ad una economia che è di fatto drogata. Lo stesso Tsipras che in campagna elettorale aveva tuonato contro le oligarchie finanziarie (Fmi e Bce in testa) che stavano strozzando la Grecia, una volta al potere ha dovuto toccare con mano che i soldi non crescono sugli alberi e che nessuno intende regalarli. Oltretutto, se è ben vero che le grandi banche straniere hanno speculato contro i titoli pubblici di Atene e se è altrettanto vero che alla Grecia prima di Tsipras era stato imposto un programma capestro di privatizzazioni delle aziende pubbliche, è altrettanto vero che sono stati gli stessi greci a mettere il collo dentro il cappio del boia. Il debito del 180% è stato infatti il frutto della politica della spesa facile portata avanti dai governi socialista del Pasok e conservatore di Nuova Democrazia. Entrambi impegnati ad alimentare le proprie clientele e conservarne i consensi elettorali. Considerato poi che i due partiti insieme avevano l'80% dei suffragi è inevitabile concludere che più della metà dei greci ha usufruito dei vantaggi di questo andazzo (vedi le pensioni d'oro a cittadini sotto i 50 anni) e che buona parte di loro sono poi passati armi e bagagli con l'annunciato vincitore delle elezioni che assicurava di voler difendere l'onore, la dignità e l'indipendenza nazionale dalla voracità delle oligarchie finanziarie. Tutte prese di posizione condivisibili in linea di principio ma che in molti, troppi, casi finivano per coincidere con la volontà di molti greci di mantenere i privilegi acquisiti. Una situazione insostenibile tanto che alla fine la tempesta ha travolto tutti. 
Ma non solo: la crisi greca, che appare insormontabile, nasce anche - e forse soprattutto - dalla decisione, imposta e suggerita da Bruxelles, di entrare a fare parte del sistema dell'euro. Un passo troppo azzardato per Atene come per altre economie europee perché una moneta non ha un senso in presenza di uno Stato che non esiste, perché l'Unione Europea non è ancora uno Stato vero. Ma c'era bisogno di una moneta che favorisse la nascita di un unico grande mercato (in particolare a favore delle merci tedesche) e gli offrisse un supporto tecnico. Si potrebbe pure ricordare che i governi greci, per entrare nell'euro, si sono avvalsi della consulenza dei tecnici della Goldman Sachs per truccare i conti pubblici, far comparire un debito molto più basso di quanto fosse in realtà e fare passare la gestione di cassa come “virtuosa”, ma sarebbe come sparare sulla Croce Rossa. Certo che è incredibile che successivamente sia stata, tra le altre banche, la stessa Goldman Sachs a speculare contro i titoli greci ma questo, a voler bene vedere, è un comportamento fisiologico del capitalismo che muove le sue risorse laddove ci sono guadagni da perseguire. 
Il fatto indubitabile è che la Grecia si trova senza soldi. La decisione di pochi giorni fa di trasferire allo Stato centrale la liquidità (circa 3 miliardi) degli enti pubblici ne è la prova più evidente. Tsipras vuole disporre di risorse per pagare i dipendenti pubblici ed impedire il blocco della macchina statale. Altrimenti ci sarebbero tutte le premesse per una bancarotta. Le scadenze comunque incombono. A maggio, tra diverse tranches, ci saranno da rimborsare 2,8 miliardi di euro a sottoscrittori privati di titoli di Stato e 879 milioni al Fondo Monetario. Per Atene, dalla Troika (Bce, Fmi e Unione Europea) è stata stanziata una cifra di 7,2 miliardi come “assistenza finanziaria”, una sorta di prestito ponte per tirare avanti il più possibile, ma i soldi non verranno svincolati in assenza di “significativi progressi”. Un termine che, in buona sostanza, vuol dire altri e più pesanti tagli alla spesa pubblica, sia come pensioni che come assistenza sanitaria. Misure che Tsipras non si può permettere per evitare che la rivolta esploda in tutto il Paese. 
Il vertice dell'Eurogruppo a Riga di venerdì 24 aprile non dovrebbe quindi registrare svolte significative. A nessuno sfugge infatti che se la Grecia non è in grado di restituire i soldi che ha preso in prestito in passato, figuriamoci se potrà farlo con quelli che le verranno dati in futuro. Pure il famoso prestito di 30 miliardi, le cui condizioni dovevano essere trattate prima della pausa estiva, rischia così di trasformarsi in una chimera. La data clou resta quella del 20 luglio con 3,5 miliardi da restituire alla Bce. Potranno essere restituiti soltanto se qualcuno presterà altri soldi alla Grecia. Il punto resta quindi quello di chi dichiarerà prima la bancarotta delle finanze pubbliche. Se i creditori, quindi i mercati finanziari, o lo stesso governo. Nell'attuale situazione, tutti gli aiuti che verranno dati ad Atene appariranno semplicemente come un palliativo per rinviare il più possibile l'inevitabile resa dei conti. E non è un gioco di parole.
Filippo Ghira

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