Fra vampiri ci s'intende


Draghi salva le zombie banks


È dall’inizio della crisi che la Bce con­ti­nua a immet­tere liqui­dità a palate nelle ban­che, senza che que­sto abbia appor­tato alcun bene­fi­cio per la mag­gior parte delle fami­glie e delle imprese del con­ti­nente, come sap­piamo bene. Que­sto per­ché, come inse­gnava Key­nes, in una situa­zione in cui il pro­blema prin­ci­pale è la sta­gna­zione della domanda, le poli­ti­che mone­ta­rie – per quanto espan­sive – non sono suf­fi­cienti a rimet­tere in moto l’economia; ser­vono poli­ti­che fiscali altret­tanto espan­sive, che immet­tano denaro diret­ta­mente nell’economia reale.

Que­sto mese la Bce darà il via al tanto atteso pro­gramma di quan­ti­ta­tive easing (Qe), che pre­vede acqui­sti di titoli – in buona parte pub­blici ma non solo – per 60 miliardi di euro al mese. Com­ples­si­va­mente, il piano pre­vede acqui­sti per un tri­lione di euro circa fino a set­tem­bre 2016 e comun­que fino a quando l’inflazione non tor­nerà a livelli rite­nuti coe­renti con gli obiet­tivi della Bce. La noti­zia è stata accolta con entu­sia­smo da molti com­men­ta­tori, secondo cui il Qe rap­pre­sen­te­rebbe l’«arma nucleare» – troppo a lungo rin­viata – capace di rimet­tere in moto l’economia del con­ti­nente. Come ha scritto di recente Euge­nio Scal­fari, il Qe farà «tirare un respiro di sol­lievo» a tutta l’Europa e «può sbloc­care il cre­dit crunch che ancora affligge molti paesi dell’eurozona». Pur­troppo l’esperienza di quei paesi che in que­sti anni hanno fatto ricorso a dosi mas­sicce di “alleg­ge­ri­mento quan­ti­ta­tivo” – prin­ci­pal­mente Stati Uniti, Regno Unito e Giap­pone – non par­rebbe giu­sti­fi­care tale otti­mi­smo, e anzi farebbe pre­sa­gire che il pro­gramma non avrà alcun impatto signi­fi­ca­tivo sull’economia reale. Nono­stante i paesi suc­ci­tati abbiano immesso sul mer­cato fiumi di liqui­dità ben più con­si­stenti di quelli pre­vi­sti dalla Bce, infatti, solo una pic­co­lis­sima parte di quella liqui­dità è sgoc­cio­lata nell’economia reale, e di quella minima parte il grosso è finito nelle tasche di chi ne aveva meno bisogno.
Il motivo è sem­plice: il Qe con­si­ste nell’iniettare liqui­dità nelle ban­che, nella spe­ranza che quella liqui­dità si tra­duca poi in cre­dito per le fami­glie e per le imprese; ma in un con­te­sto in cui la domanda e la cre­scita rista­gnano – e dun­que le pro­spet­tive di gua­da­gno offerte dall’economia reale sono misere – da un lato le ban­che sono rilut­tanti a inve­stire e a con­ce­dere pre­stiti, a pre­scin­dere dalle flebo delle ban­che cen­trali, e dall’altro le fami­glie e le imprese sono poco inclini ad inde­bi­tarsi. Infatti l’esperienza sta­tu­ni­tense dimo­stra che a bene­fi­ciare del rilas­sa­mento delle con­di­zioni di cre­dito sono state soprat­tutto fami­glie e imprese che già gode­vano di un ottimo cre­dit rating presso le ban­che, piut­to­sto che le fami­glie di red­dito medio-basso più col­pite dalla crisi. In que­sto senso, il quan­ti­ta­tive easing appare deci­sa­mente debole come stru­mento di soste­gno alla domanda aggregata.
D’altronde basta guar­dare alla sto­ria recente: è dall’inizio della crisi che la Bce con­ti­nua a immet­tere liqui­dità a palate nelle ban­che, senza che que­sto abbia appor­tato alcun bene­fi­cio per la mag­gior parte delle fami­glie e delle imprese del con­ti­nente, come sap­piamo bene. Que­sto per­ché, come inse­gnava Key­nes, in una situa­zione in cui il pro­blema prin­ci­pale è la sta­gna­zione della domanda, le poli­ti­che mone­ta­rie – per quanto espan­sive – non sono suf­fi­cienti a rimet­tere in moto l’economia; ser­vono poli­ti­che fiscali altret­tanto espan­sive, che immet­tano denaro diret­ta­mente nell’economia reale. Se guar­diamo agli Stati Uniti, per esem­pio, vediamo che l’elemento cru­ciale per la ripresa eco­no­mica non è stata la poli­tica mone­ta­ria ma la poli­tica fiscale, ovvero la spesa pub­blica. Lad­dove l’Europa, a par­tire dal 2010, si è imbar­cata in una poli­tica sui­cida di restri­zione fiscale estrema, gli Usa hanno con­ti­nuato a man­te­nere un livello di defi­cit cumu­la­ti­va­mente ben due volte supe­riore a quello euro­peo, ed equi­va­lente ad un defi­cit mag­giore a quello dell’area euro in media di 5 punti di Pil all’anno, dal 2009 ad oggi. È in que­sto che risiede, in buona parte, il segreto della ripresa statunitense.
Ben diverso è il piano con­ce­pito da Dra­ghi, che si inse­ri­sce nella stessa logica delle poli­ti­che fal­li­men­tari per­vi­ca­ce­mente per­se­guite in que­sti anni: poli­ti­che mone­ta­rie espan­sive, riforme strut­tu­rali e poli­ti­che fiscali restrit­tive. Viene da chie­dersi: ma allora a cosa serve allora il quan­ti­ta­tive easing, almeno nella sua variante euro­pea? Secondo Ashoka Mody, ana­li­sta dell’istituto Brue­gel, si trat­te­rebbe dell’ennesimo sal­va­tag­gio a favore delle ban­che dell’eurozona. Come spiega Mody, l’espansione del bilan­cio della Bce dal 2008 in poi ha avuto uni­ca­mente lo scopo di tenere a galla molti isti­tuti finan­ziari che erano di fatto insol­venti o quasi. Ecco come: prima della crisi le ban­che dei paesi del cen­tro (in par­ti­co­lare Fran­cia e Ger­ma­nia) hanno accu­mu­lato un’enorme espo­si­zione nei con­fronti delle ban­che della peri­fe­ria. A par­tire dal 2011, poi, le ban­che del cen­tro hanno comin­ciato a chie­dere indie­tro i loro soldi, ma molte ban­che della peri­fe­ria erano sull’orlo del fal­li­mento e non erano asso­lu­ta­mente in grado di ono­rare i loro debiti (se fos­sero crol­late avrebbe tra­sci­nato giù con sé molte ban­che del cen­tro). A quel punto è inter­ve­nuta la Bce: attra­verso il sistema Target2, che regola i paga­menti tra le varie ban­che cen­trali dell’eurozona, le ban­che cen­trali dei paesi del cen­tro hanno pre­stato alle ban­che cen­trali dei paesi della peri­fe­ria i fondi neces­sari per tenere in vita le loro ban­che pri­vate, affin­ché que­ste potes­sero rim­bor­sare i debiti che ave­vano nei con­fronti delle ban­che pri­vate dei paesi del cen­tro. Di fatto, si è trat­tato di un vero e pro­prio bai­lout (del valore di circa 2 tri­lioni di euro) a favore delle ban­che del cen­tro e in par­ti­co­lare della Germania.
Negli ultimi anni le ban­che della peri­fe­ria hanno ini­ziato pian piano ad appia­nare i loro debiti nei con­fronti della Bce, ma molte di esse con­ti­nuano a pre­sen­tare seri pro­blemi di via­bi­lità e di sol­vi­bi­lità e a neces­si­tare del soste­gno della Bce. Que­sto lo scopo prin­ci­pale del quan­ti­ta­tive easing, secondo Mody: con­ti­nuare a tenere in piedi le zom­bie banks dell’eurozona, miglio­ran­done un po’ lo stato patri­mo­niale, visto che i titoli pub­blici che hanno in pan­cia aumen­te­reb­bero di valore. Se è cor­retta l’analisi di Mody, si trat­te­rebbe dell’ennesimo epi­so­dio in cui gli inte­ressi dell’oligarchia finan­zia­ria ven­gono ante­po­sti a quelli dei cit­ta­dini, a con­ferma del fatto che le poli­ti­che mone­ta­rie sono sem­pre più rivolte ai mer­cati finan­ziari che all’economia reale. In que­sto senso è impos­si­bile non cogliere un nesso tra la mossa di Dra­ghi e la recente deci­sione della Fede­ral Reserve di por­tare a ter­mine il suo pro­gramma di quan­ti­ta­tive easing. Come scrive l’economista Chri­stian Marazzi, «que­sto dimo­stra che i mer­cati finan­ziari pos­sono con­ti­nuare a fun­zio­nare a una sola con­di­zione, e cioè che lo stato inter­venga, e con­ti­nui a inter­ve­nire atti­va­mente in loro soste­gno con misure di poli­tica mone­ta­ria non con­ven­zio­nale». Se l’impatto del quan­ti­ta­tive easing sull’economia reale è molto mode­sto, infatti, diverso è il caso del suo impatto sui mer­cati finan­ziari: aumen­tando la domanda di titoli e asset (sia pub­blici che pri­vati), il Qe con­tri­bui­sce ad aumen­tarne il valore (e di con­se­guenza il patri­mo­nio di chi li pos­siede, che poi sono gli stessi che ope­rano con mag­giore dime­sti­chezza sui mer­cati finan­ziari). E infatti il valore dei prin­ci­pali indici di borsa sta­tu­ni­tensi è oggi molto vicino – se non addi­rit­tura signi­fi­ca­ti­va­mente supe­riore – a quello del picco pre-crisi, sin­tomo di una nuova bolla in corso. Un fatto che ha rica­dute molto nega­tive anche sui livelli di disuguaglianza.

di Thomas Fazi - 10/03/2015

Fonte: Il Manifesto 

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