Due euro is meglio che one ?



Caro euro, Auf Wiedersehen

Ipotesi: Berlino un domani sceglie di farsi un euro-marco forte per sé e pochi altri
Angela Merkel (foto LaPresse)
Roma. Chissà che non si stia avvicinando il momento in cui sentiremo dire “Auf Wiedersehen” all’euro così come lo conosciamo oggi. A pronunciarlo sarà la Germania, secondo un ragionamento che il Foglio ha sentito fare da un’autorevolissima fonte finanziaria italiana ed europea.
Con l’uscita dei primi della classe dalla moneta unica, per ragioni che Berlino farebbe discendere dall’insostenibilità politica dell’euro prim’ancora che da quella economica, si potrebbero creare due sistemi monetari: uno “forte”, quello che l’economista dell’Università di Chicago Luigi Zingales chiamava “neuro” ieri su queste colonne, che accomunerebbe Germania e altri paesi nordici; uno più “debole” che invece terrebbe assieme l’Italia, i paesi mediterranei (o periferici, come dir si voglia), con l’enorme incognita del posizionamento della Francia. L’ipotesi di un euro a due velocità – uno scenario che consentirebbe dunque di mantenere in vita forme di unione monetaria, oltre al mercato unico – perlomeno nel dibattito accademico non è  nuovissima. Nuova invece è l’enfasi con cui questo scenario, teoricamente meno distruttivo dell’uscita di un singolo grande paese come l’Italia dalla moneta unica, si riaffaccia nelle discussioni in questa fase di nuova stagnazione dell’Eurozona. Perché mentre il governo italiano e quello francese rintuzzano le reprimende della Commissione europea sulle loro Finanziarie, il Tesoro americano nei suoi rapporti ufficiali per il Congresso individua per esempio l’Eurozona come il buco nero della crescita globale, andando ben oltre una semplice questione di decimali di deficit in più o in meno.

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Da qui all’uscita della Germania dall’Eurozona, però, ce ne passa. Nient’affatto, sostiene per esempio Matt O’Brien, columnist dell’Atlantic e collaboratore del Washington Post. O’Brien ritiene che d’ora in poi ogni nuova mossa della Banca centrale europea potrebbe essere percepita come politicamente troppo “costosa” per la cancelliera Angela Merkel: “Draghi potrebbe comunque andare avanti e procedere con il Quantitative easing (o allentamento monetario), che Merkel lo sostenga o meno – ha scritto lunedì scorso O’Brien sul Washington Post – Questo scenario sembra improbabile, però, visto che la Germania metterebbe in dubbio la legalità delle misure e potrebbe arrivare perfino a minacciare l’uscita dall’euro”.


Nel giugno 2012, anche Anatole Kaletsky, editorialista delle pagine economiche del New York Times International, aveva descritto una situazione simile: “Supponiamo che la Merkel rifiuti un qualsiasi compromesso sulla mutualizzazione del debito o sulla monetizzazione dello stesso per mezzo della Banca centrale europea nel caso in cui l’Eurozona fosse investita da una prossima crisi politica o di mercato in uno dei paesi debitori, come certamente accadrà. La risposta ovvia, per i governi dell’area Club Med, sarebbe quella di sottolineare che la Germania è diventata l’ostacolo a una risoluzione della crisi dell’euro”. Alla fine la cancelliera potrebbe essere spinta ad accettare condizioni insopportabili per la sua opinione pubblica, scriveva allora Kaletsky. A quel punto, magari di fronte a un gesto estremo dei banchieri centrali tedeschi che siedono nelle stanze della Bce, “è facile immaginare che l’opinione pubblica tedesca potrebbe chiedere un ritiro immediato”. “Una rottura di questo genere dell’euro attuale, originando da una rivalutazione della valuta tedesca, sarebbe molto meno distruttiva di un ‘break-down’ causato da una svalutazione in Grecia o in Spagna. Nel caso di una rivalutazione in Germania, non ci sarebbe effetto contagio o fuga di capitali come invece ci sarebbero se la Grecia, la Spagna, poi l’Italia e la Francia fossero sbattute fuori dall’euro uno alla volta. Non ci sarebbero cause giudiziarie da parte di creditori contrariati”.

“Se la Germania abbandonasse l’Eurozona, i problemi degli altri paesi membri sarebbero in larga parte risolti”, si è spinto a scrivere questa settimana il think tank progressista statunitense Center for Economic and Policy Research:  “L’euro presumibilmente si svaluterebbe rispetto al nuovo Deutschemark, consentendo ai paesi dell’Europa meridionale di riconquistare rapidamente la loro competitività rispetto alla Germania. La riduzione del loro deficit commerciale sarebbe una grossa spinta alla crescita e all’occupazione. E questo potrebbe avvenire senza la distruzione finanziaria che sarebbe causata dall’uscita dall’euro di uno dei paesi meridionali”. Che tutto sarebbe così semplice, è difficile prevederlo. Non foss’altro perché il processo di transizione presenterebbe comunque delle incognite.

La novità, però, è che secondo un numero crescente di analisti perfino la Germania potrebbe, per ragioni politiche, essere spinta dagli eventi a concepire nuove forme di convivenza monetaria. Un processo che, seppure non fosse distruttivo come una vera e propria fuoriuscita, resterebbe rivoluzionario. Non si tratta soltanto di una trovata apocalittica. Negli scorsi giorni, durante qualche dibattito a porte chiuse in Svizzera, perfino un ex banchiere centrale di Washington avrebbe ridotto a tre gli scenari possibili per l’Eurozona: primo, Berlino si crea un’unione monetaria per sé; secondo, i capi di governo dell’Eurozona si decidono a passare davvero a un sistema federale (con condivisione di debiti, investimenti e politica monetaria meno rigida); terzo scenario, si continua con il solito tran tran e un misto di stagnazione e deflazione sarebbe allora assicurato.


Il primo scenario sarebbe conseguenza più o meno diretta di quello che Hans Kundnani, nel suo libro di prossima uscita, definisce “il paradosso della potenza tedesca” (“The Paradox of German Power”, Hurst & Co. Publishers). Ecco il paradosso sintetizzato al Foglio da Kundnani, direttore per la Ricerca dello European Council on Foreign Relations (Ecfr): “Un dislivello così evidente tra l’enorme assertività economica e l’assenza di potere militare, quale quella che si registra in Germania oggi, è quasi un unicum nella storia contemporanea”. Lo studioso inglese di origini tedesche sembra prenderla alla larga, ma poi arriva a formulare “una nuova questione tedesca”, la cui analisi è al centro del suo saggio: “La classica ‘questione tedesca’, fin dal 1870, si poneva nei termini seguenti: cosa ne sarà di un paese collocato nel cuore del continente europeo, troppo piccolo per contenere se stesso nei suoi confini ma troppo grande per rispettare il bilanciamento dei poteri dell’area? Oggi c’è una ‘nuova questione tedesca’. Quella classica era di tipo geopolitico, fu risolta con la guerra più di una volta, e non si riproporrà più. Adesso piuttosto, progressivamente ma in maniera crescente da almeno 20-25 anni, cioè dai tempi della riunificazione delle due Germanie, la questione tedesca si esprime in termini geoeconomici”. Il sistema produttivo tedesco, “sia per la sua taglia, sia per la sua interdipendenza con i paesi vicini, sia per gli squilibri che lo caratterizzano, genera instabilità economica.

Esattamente allo stesso modo in cui quel paese prima del 1945 generava instabilità politica”. A questo punto interviene l’eventuale scelta di Berlino di modificare radicalmente gli assetti monetari attuali. Kundnani ci ragiona “in astratto”, precisa, perché le stesse “dinamiche concrete” sono difficilmente prevedibili e potrebbero finire per influenzare direttamente la scelta: “Da una parte la creazione di un ‘euro forte’ per Germania e paesi vicini renderebbe ancora più evidente la nuova questione tedesca. Sarebbe la dimostrazione che la moneta unica, nata in origine per contenere il potere politico tedesco, alla fine invece lo ha rafforzato”. Dall’altra parte, invece, per i paesi cosiddetti “periferici”, la creazione di due aree valutarie affiancate “risolverebbe almeno alcuni dei problemi che la ‘nuova questione tedesca’ pone oggi. L’euro-marco, per esempio, non potrebbe essere così sottovalutato come l’euro attuale a fronte della potenza esportatrice di Berlino. Oggi il surplus delle partite correnti tedesche è più imponente di quello cinese. L’Italia sarebbe forse il più grande beneficiario di un ‘euro 2’ parzialmente svalutato”. Non solo, conclude Kundnani: “Anche gli ostacoli attuali a una politica monetaria più espansiva da parte della Banca centrale europea, visti con crescente preoccupazione anche dagli Stati Uniti, verrebbero almeno in parte a mancare”.

Ai paesi periferici effettivamente converrebbe, dice al Foglio l’economista Giorgio Arfaras: “Si avrebbe così una metà del pil europeo presumibilmente con un euro forte, e l’altra metà con un euro debole. Perché mai i tedeschi e seguaci dovrebbero avere una moneta forte e gli altri debole? Perché sono in forte avanzo commerciale con il resto del mondo e con l’altra parte dell’Europa. Per evitare una rivalutazione eccessiva della loro moneta, dovrebbero esportare capitali verso l’estero. Perciò, per non attirare troppi capitali, dovrebbero avere rendimenti minuscoli come quelli di oggi. Si avrebbe così una compensazione finanziaria dello squilibrio commerciale. E dunque, alla fine, potrebbe esserci una domanda dall’estero di titoli dei paesi meno virtuosi. Altrimenti detto, dopo un primo periodo di Btp debole, tornerebbe la domanda estera di Btp”. Poi però Arfaras aggiunge: “Perché mai i tedeschi dovrebbero volere un euro-marco, invece di un euro-euro? Non si capisce bene, non si vede, infatti, quale possa essere il nuovo modello economico che dovrebbe sostenere una scelta di questo tenore strategico”. E ancora: “L’uscita unilaterale della Germania e seguaci, tralasciando se ciò sia possibile in un mondo dove tutti i contratti sono in euro, li riporterebbe nel mondo ante caduta del Muro di Berlino. Non si vedono oggi i vantaggi di essere un paese molto ricco, ma con modesto peso politico. Anche oggi la Germania è un paese molto ricco, e tale resterà, ma ha più peso politico”.

Sembra pensarla così anche l’ex presidente del Consiglio, Mario Monti, che una volta si autodefinì come “il più tedesco degli economisti italiani”, e che ieri, durante un incontro all’Università del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”, è stato sollecitato proprio su quest’ipotesi di scuola: e se la Germania d’un tratto guardasse gli altri stati membri dell’Eurozona e dicesse “Auf Wiedersehen”? “L’Italia ha un peso politico maggiore rimanendo nell’Unione europea e nell’euro. Non solo, ritengo che lo stesso discorso vada fatto per la Germania – sostiene Monti – Credo che sarebbe molto pericoloso se la Germania abbandonasse la zona euro. Sarebbe pericolosamente libera”. Riecco dunque la questione tedesca. Perché in definitiva la prolungata crisi dell’euro, se analizzata con certo distacco, non è soltanto un affare che riguarda i soliti sospetti.Due euro is meglio che one

“Alla fine sarà Berlino a uscire dall’euro”. Un autorevole leak

Separazione consensuale, l’Italia resta nella moneta bis. Girotondo di analisti: Lombardi, Pilati e Zingales
Mario Draghi e Angela Merkel (foto AP)
Roma. L’euro come lo conosciamo oggi potrebbe non esserci più tra qualche mese o al massimo entro un paio d’anni. Non perché decideremo di uscirne noi italiani, sempre più indebitati e ancora alla ricerca di un sentiero di crescita sostenibile e duratura. Ma perché l’euro – così com’è oggi – non sarà più ritenuto sostenibile in Germania, cioè nel paese in cui tutto è sembrato girare finora per il verso giusto, anche grazie alla moneta unica. Sarà Berlino ad abbandonare questo euro, per ragioni politiche prim’ancora che economiche, trascinando con sé un manipolo di paesi nordici consenzienti. L’Italia, più che tornare alla lira o a un’altra valuta nazionale, farà parte di una sorta di “euro 2”, assieme ad altri paesi cosiddetti “periferici”, forse perfino la Francia. E non sarà necessariamente un dramma.

Tale ragionamento, che pure a livello accademico qualcuno aveva già ipotizzato negli anni che hanno seguìto lo scoppio della crisi, il Foglio lo ha sentito formulare in queste ore da parte di un esponente di primo piano della finanza italiana. Anzi, di primissimo piano. Una personalità lontana dalla politica e che per indole e formazione non si diverte a impressionare l’interlocutore con qualche boutade ad effetto. Ad adiuvandum, ecco cosa scrive l’Economist in edicola nel suo editoriale di apertura, intitolato “Il più grande problema economico del pianeta”, cioè l’Eurozona che sta per ammalarsi di deflazione e che, secondo il settimanale, è “sull’orlo della terza recessione in sei anni”: “Con il debito di Italia e Grecia che continuerà a crescere, gli investitori si prenderanno uno spavento, i politici populisti guadagneranno terreno e – più prima che poi – l’euro collasserà”. “Più prima che poi”, quindi, perché “il tempo a disposizione dei leader europei sta finendo”. Anche per questo, all’indomani della pubblicazione dei risultati degli stress test della Banca centrale europea sugli istituti di credito che ieri hanno depresso le Borse del Vecchio continente, abbiamo chiesto ad alcuni osservatori di ragionare a caldo sull’ipotesi di una scissione dell’euro per iniziativa di Berlino, ovviamente riservandosi in futuro di discutere delle necessarie tecnicalità che pure non sarebbero di poco conto.

“Nella situazione attuale, un’uscita della Germania dall’euro sarebbe almeno in astratto la soluzione migliore”, dice al Foglio Luigi Zingales, economista dell’Università di Chicago che ne ha anche scritto nel suo ultimo libro, “Europa o no” (Rizzoli). “Un’uscita dall’euro che avvenisse ‘dall’alto’ – dice Zingales – sarebbe innanzitutto molto più gestibile rispetto a un’uscita di un paese come l’Italia. Perché è più facile tenere la gente fuori che tenerla dentro”. Si spieghi. “L’euro dei paesi nordici, che io chiamo ‘neuro’ – dice Zingales con un filo di ironia – sarebbe destinato a rivalutarsi rispetto a un euro del Club med. Di conseguenza, i cittadini tedeschi non avrebbero nessuna ragione di fuggire dai propri istituti di credito, come invece farebbero i correntisti italiani nel caso di un ritorno alla lira che sarebbe per forza di cose svalutata massicciamente e che potrebbe indurre una crisi bancaria generalizzata, con annesse prospettive di default. Ci sarebbe piuttosto una corsa di tutti gli altri europei a depositare i soldi nelle banche tedesche per beneficiare della rivalutazione che i depositi subirebbero dopo la separazione. Il governo tedesco, avendo tutto l’interesse a limitare questo processo di ‘marchizzazione’, o trasformazione in marchi, dei depositi, si attrezzerebbe per limitare l’afflusso. Alla fine italiani e spagnoli se ne farebbero una ragione”. Con il debito pubblico monstre dell’Italia si rischierebbe però l’apocalisse: “Nient’affatto. Non ci sarebbe automaticamente un default. L’euro-sud, o euro 2, si svaluterebbe certo rispetto al dollaro e anche rispetto al ‘neuro’. Ma questo ci consentirebbe almeno in un primo momento di tornare più competitivi, senza passare per un lungo processo deflattivo come quello che si annuncia”. Soprattutto i contraccolpi per il debito pubblico sarebbero limitati o addirittura nulli perché il rischio inflazione, o “rischio argentino”, sarebbe mitigato rispetto all’ipotesi di uscita solitaria di un paese mediterraneo: “L’uscita dall’euro, se messa in atto dai soli primi della classe, non consentirebbe automaticamente all’Italia di stampare moneta ad libitum e per qualsiasi futura esigenza di politica fiscale, come qualcuno vorrebbe. Questo rispetto ai mercati internazionali offrirebbe una forma di garanzia”. Le necessarie riforme per rilanciare la competitività delle economie periferiche non potranno essere rimandate per sempre; si tratterebbe soltanto di riguadagnare un’ultima chance di portarle a termine. “Una Banca centrale europea, limitata al solo Club Med, rimarrebbe comunque in piedi e operativa. Nell’interesse dei paesi rimasti, funzionerebbe come una struttura seria ma non più eccessivamente rigida come è invece oggi per ragioni politiche”.

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Sulla fattibilità economica di questo storico divorzio consensuale, tutti gli analisti interpellati dal Foglio si riservano di ragionare più a lungo. Soprattutto, nessuno si sogna di poter stimare alla perfezione cosa accadrebbe durante una simile “transizione”. Ma accettando di stare alla domanda posta dal Foglio – e dando seguito allo spunto fornito dall’autorevole esponente della comunità finanziaria italiana – i nostri interlocutori ragionano sulla fattibilità politica del tutto. Quale potrebbe essere, innanzitutto, la molla che spinge Berlino ad abbandonare la moneta unica? Certo, i segnali di una frenata dell’economia tedesca si susseguono da mesi: ancora ieri l’Ifo, l’indice che misura la fiducia degli imprenditori, si è attestato a 103,2, in flessione da settembre e con un dato inferiore alle attese. E’ pure vero che il governo di Angela Merkel ha tagliato le stime di crescita del pil per l’anno in corso, a più 1,2 per cento dal più 1,8 stimato in precedenza. Tuttavia il paese gode ancora di vantaggi robusti garantiti dallo status quo: dai costi di finanziamento del debito pubblico contenuti come mai prima, alla relativa debolezza del cambio dell’euro che non sarebbe giustificata dalla sua potenza esportatrice. Ma tentiamo di spingere lo sguardo ancora più in là, dal domani contingente all’avvenire possibile. “Una quota crescente dell’opinione pubblica tedesca in Germania vuole perseguire l’abbandono dell’euro da parte di Berlino – osserva Pilati – Il partito Alternative für Deutschland propone esattamente questo, e i suoi consensi sono saliti: dal 5 per cento delle elezioni federali nel settembre 2013 al 7 per cento delle elezioni europee nel maggio scorso, fino a risultati anche maggiori in alcune successive elezioni regionali. Non si tratta di un partito populista, raccoglie il voto di liberali e conservatori classici. Ma parliamo ancora di una minoranza, ovvio, anche perché il mainstream merkeliano per il momento può schierare tra le sue ragioni i grandi benefici che l’economia tedesca trae dallo status quo”.

 
Sempre più spesso, però, la politica nazionale subisce repentine evoluzioni anche in rapporto a quanto accade fuori dai confini e specialmente in ambito europeo. “Una possibile fuoriuscita dall’euro, intesa come iniziativa unilaterale della Germania, è concepibile in uno scenario in cui la capacità della cancelliera Merkel di equilibrare le spinte centrifughe del suo elettorato venisse erosa dalla mancata convergenza di alcune grandi economie dell’euro sul percorso riformista tracciato dal suo esecutivo”, dice Lombardi. Si immagini quanto segue: “Un riacutizzarsi delle pressioni di mercato sull’Eurozona e la frammentazione che potrebbe prodursi in seno al consiglio direttivo della Banca centrale europea in merito alla risposta da contrapporre”. Perché tra chi tira la giacchetta della Merkel, oltre ai professori scapigliati di Alternative für Deutschland, ci sono anche importanti pezzi di establishment, scontenti (per usare un eufemismo) delle scelte della Banca centrale europoea: dalla Bundesbank alla potente industria assicurativa tedesca, solo per fare qualche esempio. “D’altronde è noto che in questo contesto il capitale politico dell’attuale presidente della Bce, Mario Draghi, con l’esecutivo tedesco, si va progressivamente erodendo. Ciò potrebbe spingere la cancelliera a una scelta estrema, nel tentativo di preservare il sistema politico tedesco da spinte nazionalistiche ed eurocentrifughe”.

Quel problema chiamato “Francia”

Tutti gli interpellati, però, riflettono pure su un macroscopico ostacolo politico di nome “Francia”. “E’ la grande debolezza di questa ipotesi – ammette Zingales – Parigi economicamente non potrebbe stare al passo dei paesi del ‘neuro’. Il suo costo del lavoro per unità di prodotto è già aumentato del 20 per cento rispetto a quello tedesco. Una competizione delle merci italiane, per di più, le sarebbe fatale. Ma politicamente Parigi non potrebbe accettare quello che vivrebbe comunque come un declassamento. Aggiungo: nemmeno Berlino lascerebbe andare la Francia, probabilmente. Altrimenti la Germania, da sola, sarebbe vista come la Prussia di un ipotetico Quarto Reich”. Pilati aggiunge, concludendo: “Va considerata la debolezza politica ed economica proprio di quei paesi che avrebbero più vantaggi da una suddivisione dell’euro di questo tipo. Francia e Italia oggi sarebbero in grado di spingere la Germania a questo passo?”. La risposta, sottintesa, è “no”. Eppure sempre più spesso, pure nei circoli che contano, si fantastica su un’élite tedesca che a un certo punto, “più prima che poi” per citare l’Economist, possa parafrasare in maniera beffarda la frase di Giulio Andreotti sulla riunificazione delle due Germanie nel 1990: “Amo talmente l’euro che ne preferirei due”.

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