MONETA UNICA, ADDIO?


Trasformare le idee di economisti sempre più numerosi in azione politica. Attuare un «piano B» per modificare l’euro, o per abbandonarlo del tutto. I politici, anche in Italia, si preparano così all’appuntamento delle prossime Europee. A destra e a sinistra, dalla Lega Nord a Rifondazione Comunista.
La conferma arriva dal convegno sul tema: «Un’Europa senza euro. Costi e benefici per imprese e famiglie europee. Analisi e proposte di economisti e politici europei», promosso dall’associazione a/simmetrie e dal Manifesto di Solidarietà Europea, rete internazionale di economisti, che si propone di salvare l’integrazione europea attraverso lo smantellamento controllato dell’Eurozona.
I lavori del convegno si aprono con un minuto di silenzio assoluto per ricordare le tante vittime della crisi economica che sta attanagliando la vita assediando milioni di europei. Nella sala gremita dell’Auditorium Antonianum di Roma il silenzio è totale e sembra introdurre simbolicamente alle immagini che di lì a poco scorrono su un grande schermo. Uomini e donne che manifestano per le strade di Atene, senza più un lavoro, senza la certezza di poter essere curati dalla sanità pubblica. Scorrono le immagini della gente in fila per un pasto caldo distribuito per la strada, consumato su una panchina, mentre si alternano i commenti di intellettuali, lavoratori, medici, giornalisti (quelli dell’ERT, l’emittente radiotelevisiva chiusa per mancanza di fondi), che descrivono l’inferno in cui sta precipitando la Grecia. «Il più grande successo dell’euro», si intitola il documentario presentato e ideato da una troupe di follower del blog Goofynomics di Alberto Bagnai, prendendo il titolo - con tragica ironia - da una famosa affermazione di Mario Monti. Nel settembre 2011 l’ex premier definì infatti la Grecia proprio «il più grande successo dell’euro».
Quelle immagini, viene scandito nei successivi interventi, potrebbero illustrare il futuro prossimo venturo per molti altri europei. Gli italiani in primis. Un concetto declinato da economisti, politici (per l’Italia, Giorgio La Malfa, Gianni Alemanno, Ugo Boghetta, Stefano Fassina, Guido Crosetto, Ignazio Messina, Matteo Salvini), storici, giornalisti, di ogni orientamento, di tutta Europa, che si confrontano in pubblico sulla necessità di un «piano B», ossia che fare quando l’uscita dall’euro si renderà necessaria, se le richieste di riforma dell’assetto monetario dell’Ue saranno, ancora una volta, cadute nel vuoto. Un dato è tangibile: un anno fa, ad un convegno sull’argomento, hanno partecipato pochi esperti e quasi nessun politico. Ora il fronte del no-Euro - estremamente variegato - si è molto allargato ed è certo un suo impatto sulle elezioni di maggio. Ecco allora Hans-Olaf Henkel, ex presidente della Confindustria tedesca, e attuale candidato di Alternativa per la Germania alle Europee, spiegare che per salvare l’euro o si fanno gli Stati Uniti d’Europa oppure si deve dividere l’area della moneta unica, con i Paesi più forti che utilizzano un’altra valuta. «Ripensare l’euro» è l’unica soluzione per evitare il baratro: ne è convinto l’olandese Frits Bolkestein, ex commissario Ue. Alberto Bagnai, autore del saggio Il tramonto dell’euro, presenta una ricerca condotta da a/simmetrie per quantificare l’impatto di un riallineamento del cambio sul prezzo della benzina. Nel caso estremo di svalutazione del 40 per cento rispetto al dollaro il prezzo della benzina aumenterebbe di circa il 6% in 6 mesi. È successo di peggio dentro l’euro, sottolinea Bagnai.
«Sono venuto ad ascoltare per trasformare in azione politica ciò che è stato detto qui», spiega Salvini, segretario della Lega Nord e capolista nelle prossime elezioni, durante il dibattito moderato da Mario Giordano, direttore del Tg4 e autore, tra i molti altri, del bestseller Non vale una lira. Sempre convinto, Salvini, che «l’euro stia uccidendo l’Europa», mentre in Italia «una nostra moneta tornerebbe a far correre l’economia». «La costituzione italiana non conta più niente da quando c’è l’euro», ribatte convinto Boghetta, di Rifondazione Comunista. La strada da imboccare è una sola, sostiene Alemanno, candidato alle Europee per Fratelli d’Italia-Alleanza Nazionale: bisogna «rinegoziare i trattati, altrimenti si esce dell’Eurozona»
di Caterina Maniaci
I CALCOLI

Italia fuori dall'euro, ecco quanto costerebbe ai risaprmiatori

Cresce lo scetticismo nei confronti della moneta unica: se le dicessimo addio, nell'immediato, quanto pagherebbero i risparmiatori?


Tempi di euroscetticismo sempre più diffuso. Tempi di crisi che si dilatano ormai da anni. Tempi che non sembrano sul punto di finire. Così sul banco degli imputati, sempre più spesso, ci troviamo l'euro. La moneta unica, criticata da più fronti e da un asse trasversale. E se dicessimo addio all'euro? Nell'immediato, quanto costerebbe ai risparmiatori italiani l'uscita dalla moneta unica? Il Sole 24 Ore ha provato a fare un calcolo, un calcolo difficile, presuntivo, ma che comunque può fornire qualche indicazione. Di seguito, tutte le categorie analizzate.
Il patrimonio - L'addio all'euro e il ritorno alla lira, secondo gli analisti, comporterebbe per la divisa nazionale una svalutazione tra il 20 e il 30 per cento. Di conseguenza schizzerebbe verso l'alto il costo di materie prime quali petrolio e gas. Parimenti, di tale cifra calerebbe il valore di case e terreni, delle cosiddette attività reali. La "svalutazione", in Italia, potrebbe pesare per 1.000 miliardi di euro (il conto è stato effettuato basandosi sui dati relativi alla ricchezza degli italiani diffusi pochi giorni fa dalla Banca d'Italia).
Conti Correnti - I nostri soldi sono protetti dal fondo di garanzia fino a 100mila euro. Ma con l'uscita dall'euro calerebbe il potere d'acquisto e calerebbe anche il valore in termini reali. Secondo gli economisti, infatti, uscendo dalla moneta unica potrebbe schizzare l'inflazione, e non sarebbe possibile compensare un eventuale aumento dei rendimenti della liquidità depositata in banca. Le cifre: se l'inflazione balzasse del 5% annuo e i rendimenti in banca salissero del 2,5%, i conti correnti bancari e postari perderebbero valore per alcune decine di miliardi (di euro, s'intende).
Azioni e obbligazioni - Oggi le attività finanziarie delle famiglie, al netto della liquidità sui conti, valgono poco più di 2mila miliardi di euro: di questi, 450 mld in investimenti azionari (in gran parte italiani) e 250 mld in fondi comuni di investimento. Dunque - considerato un ipotetico calo della capitalizzazione di Piazza Affari del 20% dopo l'addio all'euro - l'impatto sulla ricchezza delle famiglie è stimabile intorno ai 100 miliardi.
Titoli di Stato - Che fine farebbero i Btp, un portafoglio di circa 200 miliardi? La svalutazione sarebbe inevitabile e pesante. Il ribasso delle quotazioni varierebbe in funzione al rendimento nominale delle cedole e in base alla loro scadenza. I titoli triennali crollerebbero, ma anche i decennali di circa il 20 per cento. Dunque per la componente obbligazionaria, sulla base di 200 miliardi, si può stimare una perdita che oscilla tra i 20 e i 40 miliardi.
Mutui - Le ripercussioni si farebbero sentire sui prestiti a tasso variabile: l'impatto si percepirebbe sulle rate, sia sul fronte dell'indice di riferimento (che riassume il costo del denaro), sia su quello dello spread applicato.

Ecco perché all'Italia conviene ancora uscire dall'euro

La nuova lira si potrebbe svalutare del 30% sulle monete forti, ma nell'arco di almeno un anno. E i nostri prodotti tornerebbero competitivi sui mercati mondiali

Che nell’euro così com’è molte cose non vadano nessuno ormai lo contesta. Il dibattito si sposta su come riformare la moneta unica o come abbandonarla. Quest’ultima opzione suscita grandi timori, non tutti fondati. Prima di parlarne, osservo che il punto dirimente è quello politico, non quello tecnico. Faccio un esempio: per i tedeschi entrare nell’euro ha significato abbandonare una valuta forte, il marco. Perché questo non ha causato panico? Semplicemente perché si era raggiunto un consenso intorno all’idea che l’euro avrebbe comunque portato benefici. Allo stesso modo oggi per gli italiani tornare alla lira significherebbe abbandonare una valuta forte, l’euro. Se però ci si convincesse, a torto o a ragione, dei benefici di un’uscita dall’euro, si creerebbero le condizioni politiche per una transizione senza panico.
Come ho spiegato ne Il tramonto dell’euro, l’obiezione secondo cui l’uscita è impossibile perché i trattati non la prevedono è infondata. La convenzione di Vienna stabilisce che un trattato può essere risolto, anche in assenza di clausole espresse, quando mutino i presupposti in base ai quali esso è stato concluso (è il principio rebus sic stantibus). L’attuale disastro fornisce una base giuridica sufficiente per un recesso. Lo ammette la stessa Bce in un documento del 2009.
Un altro principio è quello della Lex monetae: uno stato sovrano ha il diritto di decidere in quale conio sono definiti i contratti che cadono sotto la sua giurisdizione. Nel nostro codice civile questo principio è disciplinato dagli articoli  1277 e seguenti. L’uscita avverrebbe quindi tramite una ridenominazione in nuove lire dei contratti regolati dal diritto italiano. A quale cambio? L’opzione più semplice da gestire è che si usi un cambio uno a uno. Lo stipendio passerebbe da 1500 euro a 1500 nuove lire, la rata del mutuo da 500 euro a 500 nuove lire, ecc.
Ma allora non cambierebbe niente? No, qualcosa cambierebbe: il passaggio al nuovo conio sarebbe seguito da un riallineamento del cambio sui mercati valutari. Una rivalutazione dei Paesi «forti» e una simmetrica svalutazione della nuova lira, che restituirebbe respiro al nostro export con effetti positivi su reddito e occupazione.
La svalutazione non ci schiaccerebbe sotto il costo delle materie prime? Non è detto. Secondo gli studi più recenti (li trovate nel mio blog, bagnai.org), il riallineamento atteso è dell’ordine del 30%, distribuito lungo l’arco di almeno un anno. Certo, in capo a un anno le materie prime costerebbero  un 30% in più. Ma le materie prime sono solo una componente del costo del prodotto finito. Ad esempio, il riallineamento del cambio non influirebbe sul costo del lavoro in valuta nazionale. 
E poi, chiedo, un imprenditore preferisce pagare un po’ di più le materie prime, ma ricominciare a fatturare, o essere «protetto» dalla valuta forte che però gli impedisce di vendere all’estero? I tanti suicidi cui assistiamo danno una risposta fin troppo eloquente.
Nel caso dei carburanti, poi, la componente fiscale è preponderante. Per questo motivo si osserva che solo un terzo di una svalutazione si traduce in un incremento del prezzo alla pompa. Con una svalutazione del 30%, l’incremento atteso del prezzo alla pompa sarebbe di circa il 9%, distribuito in più di un anno (ne abbiamo avuti di maggiori con l’euro).
Secondo gli studi occorre un anno perché il 36% di una svalutazione si trasferisca sui prezzi interni. Ha torto chi dice che se svalutassimo del 30% saremmo tutti più poveri del 30% in una notte! Del resto, da un anno a questa parte l’euro ha guadagnato circa l’8% sul dollaro. Vi sentite molto più ricchi? No, perché la spesa di tutti i giorni non la fate negli Usa, ma in Italia.
D’accordo, si obietta, ma comunque il debito estero andrebbe pagato in valuta forte, e saremmo schiacciati dall’onere del debito! Non è corretto. Solo i contratti regolati dal diritto estero subirebbero questa sorte. Non ricade fra questi la maggior parte dei titoli pubblici. Va bene, ma allora i mercati, penalizzati dalla svalutazione, non ci isolerebbero, rifiutandoci altro credito? Non è detto. Molti avrebbero voglia di tornare a investire in un paese che riprendesse a crescere, e se ora abbiamo bisogno di capitali esteri è perché l’austerità di Monti e Letta ha distrutto reddito, risparmio e produttività degli italiani. 
Ma (si obietta) la «liretta» sarebbe attaccata dalla speculazione! Siamo proprio sicuri? Quanto più la lira perdesse di valore, tanto più le merci italiane diventerebbero a buon mercato. Le banche centrali dei nostri concorrenti starebbero quindi ben attente a evitare un eccessivo deprezzamento della nuova lira.
Il discorso andrebbe certo approfondito, ma una cosa spero emerga: viste alla luce della razionalità economica, molte obiezioni sollevate per incutere terrore agli elettori perdono vigore. È giunta l’ora che la lucidità e la valutazione dell’interesse del Paese prevalgano sull’emotività e su un malinteso «sogno» europeo.

di Alberto BagnaiProfessore associato di politica economica(Università D'Annunzio, Pescara)

Sondaggio Datamedia: "Gli italiani vogliono la lira"


Sondaggio Datamedia: "Gli italiani vogliono la lira"
"Torniamo alla lira". Gli italiani hanno le idee chiare. L'euroscetticismo in Italia continua a sedurre gli elettori che in vista delle europee sono pronti a dare una scossa all'Ue rivendicando il ritorno alla vecchia valuta. L'istiututo di rilevazioni Datamedia ha chiesto agli italiani, per conto de il quotidiano il Tempo, se l'uscita dalla moneta unica possa rappresentare un fatto positivo. Ebbene quasi sei italiani su dieci hanno detto si. Nel dettaglio il 58,1. Un dato - come racconta il quotidiano romano - ancor più rafforzato dalla distanza tra il sì e il no, ben 22%. Ormai - si legge - la percezione diffusa è che una delle cause principali di questo malessere sia proprio la moneta unica. Insomma a quanto pare la vocazione europeista degli italiani è ormai al capolinea. 

I partiti - Anche le rilevazioni per le elezioni del 25 maggio parlano chiaro. I partiti euroscettici come La Lega e Fratelli d'Italia sono in trend positivo. La Lega, sempre secondo Datamedia è al 5 per cento. Mentre Fdi continua a crescere. Se si votasse oggi. A due mesi quasi esatti dal voto solo quattro partiti supererebbero la soglia del 4%. Il Pd (fermo al 30,5%), M5s (stabile al secondo posto con il 24,0%), Forza Italia (20,5%) e la Lega (5,0%). Gli altri sarebbero fuori anche se c'è un trend positivo che riguarda due formazioni: Fratelli d'Italia e Lista Tsipras, potenzialmente in grado di arrivare oltre quota quattro. Il vento della Le Pen ora bussa alle porte dell'Italia.
dall-euro.html 

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