La telenovela europea si è arricchita di due nuovi episodi
nel corso degli ultimi mesi. Il primo è l’accordo sull’unione bancaria. Il
secondo è l’accordo sul bilancio dell’UE per il periodo 2014-2020. Cosa lega
questi due episodi?
Partiamo dal primo in ordine di tempo. L’accordo sull’unione
bancaria dell’autunno scorso affida alla BCE il potere di supervisione su
banche di dimensione tale da creare rischi sistemici. Due mesi dopo, i paesi
europei stanno adottando normative di regolamentazione più o meno radicali, ma
è soprattutto degna di nota la totale mancanza di coordinamento.L’accordo del
novembre scorso era interessante soprattutto per quello che non conteneva.
La
sostanza di un’unione bancaria risiede soprattutto in un’autorità centrale di
risoluzione delle crisi e una garanzia comune sui depositi. Su entrambe le cose
il veto della Germania era, e rimane, invalicabile. Si profila quindi un’unione
bancaria senza capacità di intervento, e con un’autorità di vigilanza costretta
a vigilare su istituzioni fortemente connesse tra loro, ma soggette a regole
differenti.
L’altro episodio, di oggi, è l’accordo sul bilancio UE per
il periodo 2013-2020. Come era prevedibile, si è trovato un compromesso al
ribasso al limite della contabilità creativa, che ha salvato l’agricoltura
francese, e ha soddisfatto Germania e Regno Unito con tagli a qualche programma
di investimento politicamente poco strategico. La vera notizia è che per la
prima volta nella storia il bilancio (già ridicolo, l’uno per cento del PIL)
verrà ridotto, di un ammontare significativo (circa il 3% in termini nominali).
Ha quindi vinto la Germania, estendendo al bilancio europeo l’austerità che
oggi sembra essere la sola politica concepibile a Berlino. L’argomento è noto.
Se tutti gli Stati membri stringono la cinghia, per quale motivo non dovrebbe
farlo anche l’Europa?
I due episodi sono legati perché entrambi pongono come
ineludibile la questione della trasformazione dell’Unione Europea in un’ entità
compiutamente federale, e allo stesso tempo ci segnalano quanto questo
obiettivo sia oggi lontano.
Chi si rallegra dell’accordo sull’unione bancaria, lo vede
come un cavallo di Troia che porterà ineluttabilmente ad un meccanismo di
assicurazione comune sui depositi; e chi come Wolfgang Munchau sul Financial
Times lo critica, lo fa perché pensa che proprio la mancanza di tale meccanismo
renda l’accordo una scatola vuota. In entrambi i casi è evidente che un’Unione
Economica e Monetaria compiuta non può prescindere da un meccanismo
assicurativo di tipo federale, né da uno sforzo di armonizzazione della
regolamentazione bancaria.
Allo stesso modo, se si legge il negoziato sul bilancio nel
contesto più ampio della governance fiscale europea, la questione di se e come
si debba avere una politica fiscale propriamente europea diventa ineludibile. È
utile ricordare che nonostante i crescenti pareri critici sui vincoli alla
politica fiscale (cui ultimamente si è aggiunta un’istituzione di peso come il
FMI), l’entrata in vigore del patto fiscale il primo gennaio scorso marca
l’evoluzione delle regole europee verso ulteriori limiti alle capacità di
singoli Stati di mettere in atto politiche fiscali autonome.
Ma è proprio la maggiore rigidità a livello locale che
suggerisce di dotarsi di capacità di azione a livello sovranazionale. È
naturale a questo proposito guardare agli Stati Uniti, dove quasi tutti gli
stati hanno regole di pareggio di bilancio anche più stringenti di quelle
europee. Tuttavia, il governo federale ha la possibilità di condurre politiche
discrezionali, ampiamente utilizzate anche per compensare le politiche
procicliche imposte ai singoli stati dall’obbligo di pareggiare il bilancio. Se
Washington non avesse potuto compensare le riduzioni di spesa a livello locale,
gli Stati Uniti sarebbero finiti in un burrone fiscale già nel 2009, aggravando
ulteriormente la crisi. Il governo federale ha potuto invece votare uno stimolo
economico pari al 5,5% del PIL, limitando gli effetti della recessione. Il
confronto può essere esteso al sistema finanziario: negli Stati Uniti la
Federal Deposit Insurance Corporation fa esattamente, al livello federale,
quello che al momento non è nell’unione bancaria europea: assicurazione dei
depositi e gestione dei fallimenti bancari.
L’esperienza degli Stati Uniti e degli altri sistemi
federali sembra insomma suggerire che quanto più si impongono vincoli rigidi a
livello locale, tanto più si deve consentire flessibilità al livello
sovranazionale, meno soggetto dei singoli paesi al rischio di comportamenti
opportunistici; un corretto funzionamento dell’Unione Monetaria non può
prescindere da questo principio di base. Ma come si concilia quest’esigenza con
il fatto che Gli Stati Uniti d’Europa sono oggi poco più di un’utopia? La
risposta è nella ricerca di soluzioni surrogate, che possano almeno
parzialmente replicare il funzionamento di uno stato federale assorbendo gli
choc comuni, e smussando le asimmetrie del ciclo economico tra diverse regioni.
Le discussioni sul nuovo bilancio pluriennale e sull’unione
bancaria avrebbero potuto essere l’occasione per discutere di come articolare i
livelli nazionale ed europeo nel contrastare il ciclo economico; di come creare
un’unione fiscale equa ed efficace; o ancora di come avviare un significativo
programma di investimenti europei. Con l’accordo di oggi, siamo ben lontani da
tutto questo…
Fonte:
http://keynesblog.com/2013/02/08/leuropa-antifederale/
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