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Ormai siamo a un giro di boa. La grande operazione
mediatico-militare passata alla storia come “Primavera araba”, è
costretta a operare in Siria un brusco ripiegamento di rotta,
soprattutto in conseguenza del fatto che Russia e Cina hanno posto il
loro veto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU per un intervento armato.
Dopo i Regime change in Tunisia, Egitto e Yemen, ma ai quali non è di
certo corrisposto il miglioramento delle condizioni di vita delle
rispettive popolazioni, dopo la devastazione manu militari compiuta
dalla nato in Libia che ha lasciato in dote al paese una guerra a bassa
intensità di tutti contro tutti, ecco che la geopolitica del caos si è
imbattuta in Siria in un muro per ora invalicabile.
Non
che nel caso siriano siano mancati, anche qui per operare un “cambio di
regime”, dei mezzi di eccezionale portata. Al contrario, tutto quello
che era possibile tentare per disarticolare l’unità interna e
destabilizzare il quadro politico del paese è stato tentato, con enorme
dispendio di mezzi e risorse. Ma invano.
Se guardiamo infatti a
quello che sta avvenendo ora alla Siria, possiamo dire che
l’opposizione sponsorizzata dall’Occidente e dai Paesi del Golfo – il
“Consiglio nazionale siriano” (cns) e l’“Esercito siriano libero” (fsa)
– sia politicamente sconfitta e l’unica speranza rimanga quella di
perseguire in una serie continua di attentati, di bombe e di uccisioni.
A questa punto il “terrore” rimane l’unica carta spendibile per gli
architetti del caos.
Non a caso la Siria, uno degli Stati
guida del mondo arabo, che si è sempre considerata il “cuore
dell’arabismo” (qalb’ al-‘urūbah), il centro del nazionalismo arabo e della lotta
contro il sionismo, non ha mai avuto una così forte indipendenza come
nel periodo di Ḥāfiẓ al-Assad (1970-2000), quando è diventata, da
potenza minore nel concerto geopolitico mediorientale negli anni
Cinquanta e Sessanta (subendo la guerra fredda araba e le influenze
esterne britanniche e poi americane), una delle maggiori e rispettate
potenze regionali, non più asservita ai tradizionali rivali come Iraq ed
Egitto. Questo è il risultato più evidente dell’astuzia
tattica di al-Assad che ha saputo compensare le limitate risorse e la
relativa debolezza militare sfruttando abilmente le superpotenze e i
popoli vicini.
Ed è esattamente per porre termine a
una tale situazione, la quale incarnava un perdurante ostacolo al fine
di ridisegnare un “Grande Medio Oriente” secondo le nuove direttrici
strategiche internazionali, che ha preso le mosse nel 2011 la poderosa
macchina bellica e propagandistica che vediamo in azione.
I
Prima di analizzare nel dettaglio l’attuale contesto siriano, è opportuno però tracciare un rapido quadro sulla
panoplia dei gruppi sociali che popolano il mondo arabo. Una volta
compiuta una panoramica su questo frastagliato arcipelago, entreremo nel
merito degli aspetti essenziali per trarre un bilancio sullo stato del Paese così com’è emerso durante il viaggio in Siria della delegazione italo-siriana a cui ho preso parte.
Partiamo anzitutto dalla composizione etnica e settaria dell’intero
spazio mediorientale. Il mondo arabo è costruito come un castello di
carte, messo insieme da Francia e Gran Bretagna negli anni Venti del
Novecento subito dopo la deflagrazione dell’Impero Ottomano. Fu diviso
arbitrariamente in diciannove Stati, tutti formati da combinazioni di
minoranze e gruppi etnici disomogenei, in modo tale da assemblare un
puzzle sempre a rischio di entrare in stato di fibrillazione. Con la
sola eccezione dell’Egitto, nel quale una maggioranza musulmana
sunnita si trova di fronte una consistente minoranza di cristiani
copti nell’Alto Egitto, tutti gli Stati maghrebini sono popolati da un
miscuglio di arabi e berberi non-arabizzati.
L’islam
combattente, emanazione delle petromonarchie feudali dei paesi del
Golfo e delle potenze occidentali (gcc + nato), come ho ampiamente
argomentato nel mio Libia 2011 (Jaca Book, Milano 2011), è riuscito a
disarticolare il complesso equilibrio interno libico facendolo
letteralmente implodere su se stesso a suon di bombe.
Neppure la
composizione dell’Iraq è essenzialmente diversa, sebbene la
maggioranza degli abitanti sia sciita (65%) e la minoranza sunnita
(20%). Inoltre vi è una consistente minoranza curda nel Nord del paese
(12%) dove si concentra il grosso delle riserve petrolifere. Dalla
caduta di Saddam Hussein in seguito all’occupazione militare nato nel
marzo 2003, gli sciiti iracheni considerano l’Āyatollāh iraniano il loro
capo naturale. Quindi, com’è facilmente intuibile, una tale condizione
rende il paese pressoché ingovernabile.
Tutti gli Stati
del Golfo e l’Arabia Saudita sono fragili contenitori che racchiudono
solo petrolio. In Kuwait, i kuwaitiani costituiscono solo un quarto
dell’intera popolazione. Nel Bahrein, gli sciiti sono la maggioranza ma
sono privi di potere; da qui le manifestazioni di protesta e la feroce
repressione della famiglia regnante degli al-Khalifa che
ancora continuano nel più completo silenzio dei media. Negli Emirati
Arabi Uniti, sempre gli sciiti sono di nuovo la maggioranza ma al
potere ci sono i sunniti. Lo stesso vale per l’Oman e per la Repubblica
dello Yemen. In Arabia Saudita metà della popolazione è
costituita da stranieri, prevalentemente egiziani e yemeniti, ma una
minoranza saudita detiene il potere. La monarchia hashemita della Giordania, da parte sua, è costituita da oltre il 40% di palestinesi ma è governata da una minoranza beduina transgiordana.
Accanto a quelli arabi, gli altri Stati musulmani condividono la medesima situazione di complessità interna. Metà della popolazione
iraniana è rappresentata da un gruppo di lingua farsi e l’altra metà
circa da un gruppo etnicamente turco, senza dimenticare la minoranza
curda esistente nel paese. La popolazione della Turchia
è composta da una maggioranza turca che ammonta al 76%, 18% di curdi,
il 3% di arabi alawiti e la restante parte di altri gruppi. Sul piano
confessionale invece abbiamo l’82% identificati come sunniti hanafiti,
il 9,1% sunniti shafi’i, il 5,7% alevista, il 3% alawiti e lo 0,2% di
cristiani. Anche in Afghanistan la componente principale musulmana
è quella sunnita, con minoranze sciite (15%) nel centro del paese e a
ridosso del confine con l’Iran. Nel Pakistan sunnita sono invece
presenti una minoranza di circa trenta milioni di sciiti con cui spesso
vengono a crearsi pericolosi momenti di frizione.
La Siria non presenta differenze fondamentali rispetto al Libano,
tranne che per il regime che la governa. I sunniti, da quando nel 1516
il sultano ottomano Selim i con la vittoria di Marğ Dabiq
presso Aleppo occupò la Siria mantenendola sotto il proprio controllo
per quattro secoli, hanno rappresentato il gruppo preponderante per
tutto l’arco di dominio della Sublime Porta. Altri
gruppi presenti nel paese sono gli ismaeliti, di cui permangono tre
sette distinte che sono sopravissute sui monti siriani e che hanno
sviluppato differenti tradizioni sociali e culturali: alawiti (14%),
drusi (3,5%) e ismaeliti (1%). Gli alawiti o nusayrī costituiscono la
più numerosa minoranza siriana. ‘Alawī è l’aggettivo relativo arabo
derivato dal nome proprio di ‘Alī, che significa in questo caso “devoto
di ‘Alī”. La setta prende corpo nel ix-x secolo nell’Iraq meridionale,
crogiolo delle dottrine ismailite, su iniziative del notabile di
Bassora Ibn Nusayr, da cui il nome nusayrī e che giunse in Siria
settentrionale nel x secolo. Le roccaforti di questa comunità sono
presenti soprattutto intorno a Latakia e Tartus. Gli alawiti sono stati
per lungo tempo la più povera, arretrata e oppressa comunità della società
siriana, fino a quando la potenza mandataria francese fondò il
“territorio autonomo degli alawiti” (1920), poi Stato alawita (1922) che
entrò successivamente a far parte della Federazione siriana e fu poi ridotto a vilayet.
I cristiani siriani rappresentano, dal punto di vista numerico, una
delle tre comunità più importanti del Vicino Oriente con i maroniti del
Libano e i copti d’Egitto. Ad Aleppo vi sono undici comunità cristiane e
nove vescovi di riti diversi. Damasco è la sede di tre patriarchi:
greco-ortodosso, greco-cattolico (melchita) e siriaco-ortodosso. Nella
seconda metà del xx secolo la popolazione cristiana si è ridotta
progressivamente in percentuale: sotto il mandato francese (1920-1946) i
cristiani costituivano il 20% della popolazione siriana,
nel 1948 il 14,1%, mentre nei primi anni del Ventesimo secolo si
attestano intorno al 10%, di cui la metà concentrata a Damasco.
Dalla fine degli anni Trenta è presente nel paese anche una numerosa
comunità di curdi che oggi ammonta a circa due milioni e cinquecentomila
persone. A questi vanno poi aggiunti oltre quattrocentomila profughi
palestinesi appartenenti a tutte le classi sociali ed economiche
riparati in Siria. Tutti i cittadini hanno uguali diritti e la
legislazione non contempla alcuna discriminazione; lo Stato è laico e
stabilisce che la religione non prevarichi sulla vita di
nessun cittadino, fatto salvo la libertà di culto garantita per ciascun
individuo o comunità. Le minoranze etnico-linguistiche (curdi,
circassi, armeni, beduini, e a partire dal 2003 circa due milioni di
iracheni scappati dalla guerra), non sono meno rilevanti di quelle
religiose.
Infine, pur essendo noto che il presidente
Bashar al-Assad è alawita, come vanno ripetendo coralmente tutti i
mezzi d’informazione, lo Stato Maggiore dell’Esercito, la polizia
politica, i diversi servizi di informazione così come il governo civile
e l’economia nazionale sono ampiamente guidate da sunniti. In realtà,
contrariamente a quanto viene diffuso dalla stampa internazionale,
l’apparato statale baathista rispecchia quasi fedelmente le diversità
etnico-religiose di cui è venata la società siriana.
I media mainstream evitano poi accuratamente di citare la Vice Presidente della Repubblica
araba di Siria, la dottoressa Najah al-Attar, la prima e unica donna
araba al mondo a occupare una carica così elevata. La signora al-Attar
non è soltanto di origine sunnita, ma è anche la sorella di uno dei
dirigenti in esilio dei Fratelli musulmani, esempio emblematico del “paradosso siriano”.
II
Questo rapido affresco delle suddivisioni etnico-confessionali che
spazia dal Marocco all’India e dalla Somalia alla Turchia, pone in
evidenza tutto il potenziale tellurico a cui, se opportunamente
“solleticato”, può essere sottoposta una così vasta area geografica. In
questo mondo a macchia di leopardo, vi sono poi alcuni piccoli gruppi
opulenti e una massa sterminata di indigenti. Negli Stati del Golfo, in
Arabia Saudita, in Qatar e in Turchia è concentrata una straordinaria
ricchezza in denaro e petrolio, ma coloro che ne beneficiano sono
minuscoli strati elitari privi di una solida base di supporto, cosa che
nessun apparato militare può evidentemente garantire.
Ecco che
in questa situazione, una volta liquidato tra il 1989 e il 1991
l’Impero Sovietico, che per quasi un cinquantennio ha rappresentato il
nemico strategico dell’Occidente Atlantico, viene a crearsi uno scenario
del tutto nuovo. Con ovvie ricadute anche nel mondo arabo.
Gli Stati Uniti dispongono nell’area di un alleato di ferro come la
Casa dei Saud, con la quale è tuttora pienamente operativo il “Patto di
Quincy” firmato il 14 febbraio del 1945 tra Franklin D. Roosevelt e il
re saudita ʿAbd al-ʿAzīz Āl Saʿūd. Tale accordo avrebbe permesso agli
Stati Uniti di garantirsi un approvvigionamento energetico senza
ostacoli in cambio della protezione del suo vassallo
nell’affrontare i loro comuni avversari nella regione, in particolare
il nazionalismo arabo e l’Iran, di cui alcuni territori erano passati
sotto l’influenza sovietica.
Ma nella regione vi è
anche un altro alleato di ferro, anzi d’acciaio, Israele, con cui i
rapporti verranno stretti ancor di più soprattutto a partire dalla
cosiddetta “Guerra dei sei giorni” del 1967. Un’entità, lo “Stato
Ebraico”, in guerra praticamente con quasi tutti i paesi circonvicini
sin dal momento della sua proclamazione in terra palestinese nel maggio 1948.
Da questo intricato groviglio emergeranno negli anni successivi talune
proposte operative per ridisegnare il quadro geopolitico del Medio
Oriente che rappresentano l’asse strategico fondamentale lungo il quale
si muovono congiuntamente nato e Israele per il xxi secolo. La prima
proposta venne formulata da Bernard Lewis, membro del Bilderberg, ex
ufficiale dei servizi segreti britannici oltreché storico molto discusso
per avere individuato le radici dello scontento arabo nei confronti
dell’Occidente non già in una reazione all’imperialismo, ma nell’Islam
stesso; quest’ultimo invero sarebbe incompatibile con l’Occidente e
destinato a scontrarsi con esso, secondo la teoria dello “Scontro di
civiltà”.
Lewis presentò alla Conferenza del 1979 del
Gruppo Bilderberg una strategia britannico-americana “approvata dal
movimento estremista Fratellanza Musulmana […], con lo scopo di promuovere la balcanizzazione dell’intero Vicino Oriente musulmano
lungo linee di divisione tribali e religiose”. Secondo Lewis
l’Occidente avrebbe dovuto “incoraggiare gruppi autonomisti come i
curdi, gli armeni, i maroniti del Libano, i copti etiopici, i turchi
dell'Azerbaigian e così via”. In quello che definiva “Arco di crisi”
sarebbe “dilagato il caos, estendendosi poi nelle regioni musulmane
dell’Unione Sovietica”. Dato che l’urss veniva reputato come un regime
laico e ateo, l’ascesa dei governi islamici nel Medio Oriente e in
Asia Centrale avrebbe impedito alla Russia di esercitare la propria
influenza nella regione, visto che gli estremisti musulmani
avrebbero diffidato dei sovietici ancor più di quanto diffidassero
degli americani. Questi ultimi si sarebbero in definitiva presentati
come “il male minore”.
Per decenni Lewis svolse un
ruolo fondamentale come professore, guru e mentore per due generazioni
di orientalisti, accademici, esperti dei servizi segreti statunitensi e
britannici, membri di think-tank e un nutrito assortimento di
neo-conservatori. Negli anni Ottanta Lewis frequentava abitualmente
pezzi grossi del Dipartimento della Difesa. Nell’autunno
del 1992 scrisse un saggio per “Foreign Affairs”, la rivista del
Council on Foreign Relations (cfr), intitolato Ripensare il Medio
Oriente. In questo articolo egli prospettò “un’altra politica” nei
confronti del Medio Oriente dopo la fine della Guerra
Fredda e agli inizi del Nuovo Ordine Mondiale: una “possibilità che
potrebbe addirittura essere accelerata dal fondamentalismo, [...] e che
negli ultimi tempi è di moda chiamare ‘libanizzazione’. La maggior
parte degli Stati del Medio Oriente sono di recente e artificiale
costituzione e vulnerabili a questo processo. Se il potere centrale
viene sufficientemente indebolito non c’è una vera società civile che
possa tenere insieme la vita politica, né alcun vero senso di identità
nazionale comune o di prioritaria lealtà allo Stato-nazione. Lo Stato
allora si disintegra – come è accaduto in Libano – in un caos di
fazioni, tribù e partiti litigiosi, rissosi e in perenne conflitto”.
Un proposta operativa, la sua, che s’inseriva nel solco già dissodato
da George Lenczowski sempre su “Foreign Affairs” nell’estate del 1979,
che descriveva con queste parole l’Arco di crisi: “Il Medio Oriente
costituisce il suo nucleo centrale. La sua posizione strategica è
incomparabile: è l’ultima grande regione del Mondo Libero direttamente
adiacente all’Unione Sovietica, ha nel proprio sottosuolo circa tre
quarti delle riserve mondiali stimate e dimostrate di petrolio ed è sede
di uno dei più spinosi conflitti del xx secolo: quello tra il sionismo
e il nazionalismo arabo”.
È in questo contesto che, come
ammise in seguito lo stesso Zbigniew Brzezinski, “cominciò nel 1980
l’appoggio offerto dalla cia ai mujaheddin, cioè dopo l’invasione
sovietica dell’Afghanistan il 24 dicembre 1979. Infatti, il 3 luglio
1979, il Presidente Carter firmò la prima direttiva per fornire
segretamente aiuti agli oppositori del regime pro-sovietico di Kabul. E
quello stesso giorno – continua Brzezinski – scrissi una nota al
presidente in cui gli spiegai che secondo me questi aiuti avrebbero
provocato un intervento militare dei sovietici […]. Non spingemmo i
russi a intervenire, ma aumentammo scientemente la probabilità che lo
facessero”. In altre parole, li “spinsero” a intervenire.
Fu allora che vennero creati i mujaheddin e attraverso questi al-Qaeda come sezione araba della cia,
la quale in seguito ha polarizzato l’agenda geopolitica mondiale fino
ai giorni nostri. Per tale ragione il “terrorismo” non può essere
visto, come spesso accade, semplicisticamente come un “attore non
statale” che reagisce alla politica di nazioni e corporation. Di fatto
molti gruppi terroristici, soprattutto i più grandi, estremisti,
violenti e meglio organizzati, sono “attori per conto di uno Stato” che
vengono segretamente supportati – attraverso la fornitura di armi e
addestramento – da vari servizi segreti. Non si limitano dunque a
“reagire”, ma hanno un ruolo di spicco sullo scacchiere internazionale. Rappresentano, in altri termini, il perfetto pretesto per l’avventurismo militarista e la guerra.
Come scrisse il “San Francisco Chronicle” nel settembre del 2001,
subito dopo gli attentati dell’11 settembre, “la mappa dei covi e dei
bersagli terroristici in Medio Oriente e nell’Asia Centrale è anche, in
misura straordinaria, una mappa delle principali risorse energetiche
mondiali del xxi secolo. Sarà l’accaparramento e la difesa di queste
risorse energetiche, più che un semplice scontro tra l’Islam e
l’Occidente, a costituire il primo punto di innesco di un conflitto
globale per decenni a venire”. E proseguiva così: “Inevitabilmente la
guerra contro il terrorismo verrà vista da molti come una guerra per
conto delle americane Chevron, Exxon-Mobil e Arco, della francese Total-Fina-Elf, della British Petroleum, della Royal
Dutch Shell e di altre multinazionali che hanno investimenti da
centinaia di miliardi di dollari nella regione”. Di fatto, ovunque sia
presente al-Qaeda e tutta la sua vasta rete di agenzie in franchising,
l’esercito degli Stati Uniti e dei suoi alleati la segue a ruota, e
dietro l’esercito aspettano e spingono le compagnie petrolifere; alle
spalle di queste ultime, poi, vi sono tutte le ramificazioni dei grandi
potentati finanziari.
III
Per quanto riguarda invece la compagine dell’entità sionista, nel
febbraio 1982 un giornalista israeliano legato al ministero degli Esteri
di Tel Aviv, Oded Yinon, scrisse un articolo per “Kivunim. A Journal
for Judaism and Zionism” in cui veniva enunciata in maniera esplicita,
dettagliata e univoca la Strategia di Israele negli anni Ottanta del
Novecento per il Medio Oriente. Il piano si basava su due premesse
essenziali. Per sopravvivere, Israele deve: 1) diventare una potenza
imperiale nella regione; 2) dividere l’intera area in piccoli Stati
attraverso la sparizione di tutti gli Stati arabi esistenti. La
composizione etnica o settaria di ogni Stato sarà decisiva per
determinare quanto “piccolo” dovrà essere un nuovo Stato. Pertanto, si
auspicava che gli Stati “a base settaria” diventassero “satelliti di
Israele” nonché, ironicamente, sua fonte di legittimazione morale.
L’idea non era nuova, essendosi già affacciata altre volte nel pensiero strategico sionista. Quello che invece risultava
assolutamente innovativo era la maniera cristallina con cui si rendeva
pubblicamente noto il progetto. “Ciò che vogliamo non è un mondo
arabo, ma un mondo di frammenti arabi, pronto a soccombere all’egemonia
israeliana”. Questo l’obiettivo finale.
L’autore, senza tanti giri di parole, propugnava esplicitamente “La dissoluzione della Siria
e, più tardi, dell’Iraq in aree peculiari per etnia o religione come
in Libano è l’obiettivo primario a lungo termine di Israele sul fronte orientale, mentre la dissoluzione della forza
militare di questi Stati lo è a breve termine. La Siria si sfascerà in
base alla sua struttura etnica e religiosa in Stati diversi, come
accade nel Libano di oggi, così ci sarà uno Stato sciita alawita lungo
la costa, uno Stato sunnita nell’area di Aleppo, un altro Stato sunnita
a Damasco, ostile al suo vicino settentrionale, e i drusi creeranno un
loro Stato, forse addirittura nel nostro Golan, sicuramente
nell’Hauran e nella Giordania settentrionale […]. L’Iraq, ricco di
petrolio da un lato, dilaniato all’interno dall’altro, è un candidato
sicuro a far parte degli obiettivi di Israele. Per noi la sua
dissoluzione è perfino più importante di quello della Siria. L’Iraq è più forte della Siria
[…]. Qualunque tipo di scontro interarabo ci sarà d’aiuto nel breve
termine e accorcerà la strada per l’obiettivo più importante che è
quello di spezzettare l’Iraq in varie comunità statali come nei casi della Siria e del Libano. In Iraq è possibile una divisione in province su base etnica e religiosa simile a quella della Siria all’epoca dell’impero ottomano. Così ci saranno tre (o più) Stati attorno alle tre città principali: Bassora, Baghdad e Mosul, e le aree sciite del sud saranno separate dal nord sunnita e curdo”.
Ricordiamolo ancora una volta: l’articolo è datato febbraio 1982,
dunque senza alcuna diversione “complottista” possiamo tranquillamente
convenire sulle capacità previsionali di questa analisi.
L’Iraq, a seguito dell’invasione anglo-statunitense nel marzo 2003, è
stato effettivamente smembrato con le modalità suggerite da Yinon,
mentre per il momento le sorti della Siria non hanno ancora seguito le sue vaticinazioni.
Nel 1996 un think-tank israeliano che contava tra i suoi membri molti
importanti neo-conservatori americani come Richard Perle, Douglas Feith
James Colbert, Charles Fairbanks, Jr. e David Wurmser, pubblicò un
documento per il leader del Likud Benjamin Netanyahu, che allora
subentrava nell’incarico di Primo Ministro, intitolato A Clean Break: A
New Strategy for Securing the Realm (Un taglio netto: una nuova
strategia per garantire la sicurezza al Regno), in cui si auspicava che
Israele “collaborasse più strettamente con la Turchia e la Giordania
per contenere, destabilizzare e respingere alcune delle sue peggiori
minacce”, in particolare per deporre Saddam Hussein.
Nel
settembre del 2000, il Project for the New American Century (PNAC), un
altro think-tank neo-conservatore composto da personaggi del calibro di
Paul Wolfowitz, Jeb Bush, Richard Perle, Donald Rumsfeld, Robert
Zoellick, Richard Armitage, Lewis “Scooter” Libby, William Kristol,
Robert Kagan, R. James Woolsey, Elliot Abrams, William J. Bennett, John
Bolton, fece uscire un documento dal titolo Rebuilding America’s
Defenses (Ricostruire le difese dell’America), dove si propugnava
apertamente un impero americano nel Medio Oriente e in particolare
l’eliminazione delle “minacce” rappresentate da Iraq, Siria e Iran. Nel
testo in questione, a proposito del processo di trasformazione della difesa
statunitense, troviamo una precisazione cruciale, molto dibattuta alla
luce dei successivi eventi degli attentati dell’11 settembre 2001: “Il
processo di trasformazione, anche se porterà un cambiamento
rivoluzionario, risulterà molto lungo, se non si dovesse
verificare un evento catastrofico e catalizzante, come una nuova Pearl
Harbor”. Il riferimento è evidentemente allo shock che causò sull’opinione pubblica americana determinando l’immediata entrata in guerra degli Stati Uniti.
Subito dopo l’invasione statunitense dell’Iraq, che seguiva di circa un
anno e mezzo l’occupazione militare dell’Afghanistan per catturare
Osama Bin Laden, membri di spicco del Council on Foreign Relations
(cfr) avevano cominciato a promuovere la divisione dell’Iraq in almeno
tre staterelli, esattamente come si era prospettato più sopra.
Nel 2006 l’“Armed Force Journal” pubblicò un articolo del Tenente Colonnello in congedo Ralph Peters sulla
necessità di ridisegnare i confini del Medio Oriente. Innanzitutto
Peters ribadiva la “necessità di dividere l’Iraq”; poi “l’Iran, uno
Stato dai confini ‘capricciosi’, avrebbe perso gran parte del suo
territorio a vantaggio di un Azerbaijan unificato, un Kurdistan libero,
uno Stato arabo sciita e un libero Beluchistan, ma avrebbe guadagnato
le province che circondano Herat nell’attuale Afghanistan”. Peters
compilò anche una breve lista di “perdenti” e “vincitori” di questo
nuovo Grande Gioco: chi guadagnava territorio e chi lo perdeva. Tra i
perdenti vi erano l’Afghanistan, la Libia, l’Iran, l’Iraq, la Siria, la
Cisgiordania e il Pakistan. Inoltre egli esprimeva l’allarmante
convinzione secondo cui il ridisegno dei confini “si ottiene spesso
unicamente per mezzo di guerre e violenze e che un altro piccolo
segreto insegnatoci da 5000 anni di storia è che la pulizia etnica
funziona”.
IV
Naturalmente qualcuno potrà obiettare che, per quanto riguarda le
affermazioni or ora riportate, si tratta di semplici parole in libertà.
Peccato però che una buona parte delle cose scritte o riconducibili a
costoro, che ricordiamolo sono personaggi di primo piano
dell’intelligencija e del firmamento politico-militare a livello
internazionale, si sono effettivamente realizzate talis et qualis. E
altre, al momento in standby, sono in “via di esecuzione”.
Insomma, parliamo di gente che ha tutti i mezzi per far seguire alle
parole i fatti. Gente, per dirla con Karl Rove, già capo dello staff
presidenziale di George W. Bush, che non ha alcuna difficoltà a far
sapere come Vuolsi così colà dove si puote: “Ora noi siamo un impero e
quando agiamo – sentenziava Rove – creiamo la nostra realtà. E mentre
voi state giudiziosamente analizzando quella realtà, noi agiremo di
nuovo e ne creeremo un’altra e poi un’altra ancora che potrete studiare.
È così che andranno le cose. Noi facciamo la storia e a voi, a tutti
voi, non resterà altro da fare che studiare ciò che facciamo”.
Mettiamo dunque da parte qualsiasi attribuzione gratuita di
“complottismo” o “dietrologia”, che non c’entrano assolutamente nulla in
tale contesto. Concentriamoci invece in quest’ultima parte del nostro
scritto su quanto è stato detto e fatto nell’ultimo anno per
giustificare il clamore diffamatorio dei media mainstream nei confronti della Siria.
Vedremo così se tutto quello che la stampa ci ha riversato addosso è
giustificato da elementi concreti o se, invece, ciò a cui abbiamo
assistito non è altro che l’ennesimo tentativo di “creazione di una
realtà” già pianificata illo tempore.
Partiamo
innanzitutto anche in questo caso dalla constatazione che Al Jazeera e
Al Arabiya, esattamente come era già avvenuto nel caso della “Primavera
Araba” e soprattutto con la Libia a partire dal febbraio 2011, hanno
scatenato una campagna mediatica internazionale tutta tesa a far passare
il postulato sulle “violenze disumane perpetrare dal
regime di Bashar al-Assad contro il suo stesso popolo”. I “ribelli”,
nel quadretto agiografico allestito negli Studios di proprietà
dell’emiro del Qatar e del monarca saudita, erano semplici “civili
desiderosi di instaurare la democrazia in Siria”. Non si sa bene a
quale democrazia si faccia allusione, visto che in Qatar e Arabia
Saudita di democrazia non ne esiste nemmeno l’ombra.
Il Qatar è soprattutto una gigantesca base militare americana, la più
grande esistente fuori dagli Stati Uniti. E inoltre, per inciso, è il
regno di un piccolo satrapo di stampo feudale e teocratico. Nel suo
regno non vi è alcun Parlamento, nessuna Costituzione vigente, nessun
partito, tanto meno vi hanno mai avuto luogo consultazioni
elettorali. Quanto ai “diritti civili e umani”, meglio lasciar perdere.
Nel giugno 1995 l’attuale signorotto, Sua Maestà Hamad bin Khalifa
al-Thani, ha organizzato un colpo di Stato contro il suo stesso padre.
Questa la pasta dell’uomo che, per il Segretario di Stato Hillary
Clinton, è reputato un “partner decisivo per gli Stati Uniti”. E infatti
costui, per rendersi meritevole di cotanta fiducia, nel corso del 2011
ha inviato ben cinquemila commandos per sostenere la ribellione
jihadista contro la Libia.
Le peggiori accuse nei confronti della Siria,
spesso documentate come false o fabbricate ad hoc ma sistematicamente
avallate da un sedicente Osservatorio siriano per i diritti umani con
sede a Londra, provengono da queste emittenti satellitari per essere poi
subito riprese senza verifica alcuna da network come France 24, Fox
news, cnn, bbc e dai circuiti internazionali ad esse collegate.
Da consumati esperti di chirurgia estetica, essi hanno trasformato
l’Esercito siriano libero (fsa) in un movimento di “resistenza
democratica” di bravi e simpatici filantropi, composto da “disertori
umanitari” disgustati dalle atrocità commesse dall’esercito regolare
siriano (il presunto leader del fsa, Riad Mousa al-Asaad, è ospitato
nella provincia turca di Hatay, in precedenza siriana, e beneficia della diretta protezione del ministero degli Affari Esteri.).
Nessuna menzione invece ai “rapimenti, alle torture, alle esecuzioni
sommarie, alle mutilazioni e alle pratiche criminali commesse dai gruppi
armati che si oppongono al regime siriano”, come ha dovuto ammettere
anche l’organizzazione non-governativa Human Rights Watch in un suo
rapporto pubblicato il 20 marzo 2012, cioè dopo più di un anno di
distanza da quando i terroristi imperversano in Siria. O ancora, per
rimanere sulla contabilità cimiteriale del conflitto
siriano, un “libero” massacratore intervistato da Ulrike Putz per “Der
Spiegel”, attribuisce alla sua brigata di beccamorti da duecento a
duecentocinquanta esecuzioni, quasi il 3% del bilancio complessivo
delle vittime da quando si è iniziato a “esportare la democrazia” in
Siria.
Per questo è calato un silenzio tombale – o quasi – sulle
dimissioni di Ali Gashem, inviato speciale di Al Jazeera in Siria, del
direttore dell’ufficio di Beirut Hassan Shaaban e del produttore di
rete, quest’ultimo in protesta perché l’emittente qatariota “ha
totalmente ignorato il referendum tenuto in Siria per la riforma
costituzionale, che ha visto alle urne il 54% degli aventi diritto e il
90% dei voti a favore del cambiamento”. Un gesto plateale per
denunciare le falsificazioni, le censure e le pressioni cui erano
continuamente sottoposti dalla proprietà del network per presentare la
tragedia siriana secondo i suoi desiderata.
Ma non
è la prima volta che questo avviene: Da Wadah Khanfar a Ghassan Bin
Jiddo, da Louna Chebel a Zeina al-Jaziji e a Eman Ayad, Al Jazeera ha
dovuto subire importanti defezioni che passano sotto silenzio nella
stampa occidentale. Malgrado questi scandali a ripetizione, i “nostri”
media continuano tuttavia a considerare Al Jazeera come una fonte
d’informazione affidabile, e il suo padrone, il cacicco feudale Hamad
bin Khalifa al-Thani, come un apostolo della democrazia.
Sono parimenti considerati “dettagli” su cui si può tranquillamente
sorvolare ciò che nell’estate del 2011 un alto funzionario saudita ha
detto a John Hannah, ex-capo assistente di Dick Cheney, che fin
dall’inizio della sollevazione in Siria il re saudita ʿAbd
Allah ha creduto che il cambiamento di regime sarebbe un grande
beneficio per gli interessi del proprio paese: “Il re sa che, oltre al
collasso vero e proprio della Repubblica Islamica, nulla indebolirebbe di più l’Iran che perdere la Siria”.
È questo oggi il Grande Gioco: lavorare allo smembramento della Siria.
Ed è così che si è giocato: istituire in fretta un Consiglio nazionale
siriano (cns) come “unico rappresentante del popolo siriano”,
indipendentemente dal fatto che avesse delle basi reali nel paese;
alimentare gli insorti armati provenienti dagli Stati limitrofi; imporre
sanzioni che colpiscano i ceti medi; montare una campagna mediatica
per denigrare gli sforzi siriani di riforma, cercare di fomentare
divisioni all’interno dell’esercito e dell’élite e, come risultato finale, fare cadere la testa del presidente al-Assad.
Le origini di questa operazione, come si è visto, sono precedenti il
cosiddetto “risveglio arabo”. Esse risalgono al fallimento di Israele
nella guerra del 2006 per danneggiare seriamente Hezbollah, e alla
valutazione post-conflitto degli Stati Uniti secondo cui la Siria
rappresenta il tallone d’Achille di Hezbollah, ossia il punto debole
nella via di collegamento tra questa e l’Iran. Funzionari statunitensi e
israeliani speculavano su cosa si sarebbe potuto fare per bloccare
questo corridoio vitale, ma il principe Bandar bin Sultan dell’Arabia Saudita li ha sorpresi dicendo che la soluzione era “sfruttare le forze islamiche”.
“I passi successivi – spiega il diplomatico inglese Alastair Crooke –
furono coinvolgere il presidente francese Sarkozy nella squadra,
l’arci-promotore del modello del Consiglio di transizione di Bengasi
(cnt), che aveva trasformato la nato in uno strumento per il cambiamento
di regime. Barack Obama seguì contribuendo a persuadere il primo
ministro della Turchia, Recep Tayyip Erdogan, già piccato verso Assad, a usare la parte del Consiglio di transizione sul confine con la Siria, e a prestare la sua legittimità alla ‘resistenza’ ”.
Sembrava quasi fatta. Mancava solo, come passo finale, una legittimazione da parte della Lega Araba, egemonizzata dagli autocrati del Qatar e dell’Arabia Saudita. Si pensava che un’ispezione di osservatori sul territorio
sarebbe stata sdegnosamente rifiutata da Damasco, cosa che in effetti
non avvenne. Ma una volta iniziati i suoi lavori, la Commissione ha
dovuto registrare le grida di dolore dei siriani che denunciavano le
atrocità dei “ribelli”, che in moltissimi casi erano composti da
stranieri. Nel suo rapporto ha quindi riferito di tali atrocità delle
bande armate, tenute nascoste dai media e ignorate dalle capitali
occidentali e dalle retrive monarchie arabe. Risultato: la
Lega Araba ha gettato via il rapporto e ha preteso le dimissioni del
capo-missione, il generale sudanese Mohammed Ahmed Mustafa al-Dabi,
colpevole di aver turbato la “narrativa” corrente.
Alla luce di tutto questo, come ha avuto il coraggio di ammettere
pubblicamente Giuseppe Nazzaro, vicario apostolico di Aleppo, possiamo
dunque arguire che l’obiettivo primario di queste sollevazioni
eterodirette è stato fin dall’inizio di frantumare la società siriana,
infliggere quante più perdite possibili all’esercito di Assad, dividere
il paese su linee etnico-confessionali, paralizzare la produzione
agricola, industriale, artigianale. Insomma, distruggere il tessuto
connettivo della società siriana facendola regredire a
quel pulviscolo di entità territoriali che, per usare le parole del
sociologo siriano Safouh al-Akhrass, “sotto i turchi era costituita da
una serie di comunità, ognuna indipendente dalle altre, legate in
ordine sparso a un apparato amministrativo simile al feudalesimo
europeo”.
Va infatti sottolineato, come ricorda
opportunamente Bahar Kimyongür, che “per i salafiti la Siria in quanto
tale non esiste. Questo nome sarebbe, come quello dell’Iraq, una
fabbricazione degli atei. Nel loro gergo ispirato dal Corano, l’Iraq si
chiama Bilād al-Rafidain (la terra dei due Fiumi) e la Siria, Bilād
al-Shām (la terra di Cam). Colui che adotta l’ideologia nazionalista e
si consacra alla liberazione del suo paese, commette per loro un
peccato di associazione (shirk, politeismo, l’associare all’unico vero
Dio una pletora più o meno vasta di altre divinità, ad esempio l’idea
di nazione, costituisce uno dei più gravi peccati). Egli viola il
principio del tawhid, l’unicità divina, e per questo merita la morte.
Per tali fanatici, la sola lotta approvata da Allah è la jihad, la
guerra definita ‘santa’, scatenata nel nome di Allah con l’obiettivo di
estendere l’Islam. In quanto corollario del nazionalismo arabo, il
panarabismo, questa idea progressista di unità e di solidarietà
inter-araba, è a fortiori un sacrilegio, in quanto mina il concetto di
‘Umma’, la madre patria musulmana”.
Composti da tutte le nazionalità che popolano la regione, i movimenti
jihadisti presenti in Siria ostentano un radicale antinazionalismo che
non riconosce alcun limite territoriale. Dunque non possono essere
associati in senso stretto a un solo paese della regione.
Nelle loro fila si trovano sauditi, maghrebini, libici, giordani,
libanesi, turchi, afghani, ma perfino tanti palestinesi
ultraconservatori che respingono l’idea di una lotta di liberazione
nazionale in Palestina. I paesi nato e gli Stati Uniti, come del resto
già avvenuto in tempi recenti, completano un simpatico quadretto
familiare del terrorismo contro la Siria a fianco delle monarchie del
Golfo, dei mercenari libici, dei propagandisti salafiti e di al-Qaeda.
È un scenario ingarbugliato con venature surrealiste (o surreali?) che ci viene confermato, a riprova della consapevolezza
nei confronti di ciò che sta accadendo, dalle personalità più
disparate che abbiamo incontrato nei giorni trascorsi in Siria: dal
Patriarca greco-cattolico melchita di Antiochia e di tutto l’Oriente
Gregorios iii Laham, che parla esplicitamente di una “dittatura della stampa”
tesa a falsificare e sovvertire completamente i fatti reali, allo
sceicco Muhammad Sa’id Ramadan al-Buti, presidente del congresso
islamico dei paesi dello Sham e forse il più eminente studioso vivente
dell’islamismo.
Costui, facendoci l’onore di riceverci
nella sala antistante la Moschea degli Omayyadi, il più grande edificio
di culto a Damasco e una delle più belle moschee al mondo, di cui è
anche Imam, ci ha salutato con queste parole: “Credo nella vostra
fratellanza più che in quella dei nostri cugini arabi che falsificano
la verità”. E stiamo parlando di un islamico sunnita di rito hanafita, i
cui saggi discorsi contrastano radicalmente con gli appelli
all’omicidio e all’odio degli sceicchi wahhābiti dell’Arabia Saudita,
come per esempio il telepredicatore Aidh Al-Qarni, il quale dagli
schermi di Al-Arabiya ha dichiarato che “ammazzare Bashar al-Assad è un
dovere per ogni vero fedele!”. O ancora lo sceicco Yusuf al-Qaradawi,
che lancia abitualmente dal pulpito di Al Jazzera delle fatwah che
legalizzano l’assassinio di alawiti, cristiani, drusi oltreché dei
sunniti favorevoli al governo siriano. Telepredicatori islamici che,
incredibili a dirsi, promettono addirittura dei “passaporti per il
paradiso” ai volenterosi fanatici che si immolano nella “guerra santa”
contro gli infedeli.
Sulla medesima
lunghezza d’onda degli incontri precedenti va senz’altro collocata
anche Madre Agnès-Mariam de la Croix, di origine palestinese con
cittadinanza libanese e francese, superiora del Monastero Mar Yakub
(San Giacomo l’Interciso) a Qâra, ubicato a circa duecentocinquanta
chilometri a Nord di Damasco e quasi al confine con il Libano, la quale
mi ha raccontato dettagliatamente i risultati della sua inchiesta tesa a controllare la veridicità delle informazioni propalate quotidianamente dai media mainstream.
Madre Agnes-Mariam espone una realtà molto diversa dal quadro che,
volente o nolente, si è raffigurato in Occidente sui fatti siriani.
Senza interrompere la sua attività di pittrice per “guadagnarsi il pane”
e fare andare avanti i lavori di sistemazione dello splendido
Monastero che condivide con un’altra ventina tra suore e frati
provenienti da varie parti del mondo, mi parla di “persone spacciate
per morte ad uso televisivo e che morte invece non erano”, di
“individui uccisi e orribilmente mutilati affinché le loro morti
potessero essere attribuite alle violenze dell’esercito siriano, ma che
invece erano stati assassinati dai cosiddetti ‘ribelli’ a beneficio
delle troupes dei grandi network”. Parla ancora di “violenze inaudite
su bambini, di stupri, di mutilazioni di seni, di uccisioni seriali di
cristiani presenti nelle città teatro delle rivolte dei fanatici
islamisti, di omicidi compiuti anche ai danni di sunniti che non
condividevano la loro violenza belluina”. Parla di tutto ciò che ha
potuto appurare in prima persona, senza frapporre tra se e i fatti
alcun filtro televisivo o giornalistico, ma la sua testimonianza non
viene raccolta da nessun mezzo di comunicazione, neppure da quelli
cattolici. Non rientrando nei canoni del “politicamente corretto”, la
sua voce fuori dal coro risulta sgradita ai corifei del Big Brother. E tutto questo, per una donna della sua tempra e della sua
dirittura morale, è fonte di scoramento trovandosi al cospetto di una
Chiesa che, precisa Madre Agnes-Mariam, “non ha più il coraggio di
testimoniare la verità”. La sua conclusione è che stiamo vivendo in
tempi Apocalittici, giudizio forse condiviso oggi da molte persone.
Un’ulteriore smentita dei cumuli di menzogne ai danni della Siria
proviene anche dal Centre Français de Recherche sur le Renseignement,
un gruppo d’intelligence privato allestito da vecchi dirigenti della Direction
de la Surveillance du Territoire (dst), insieme al Centre
International de Recherche et d’Études sur le Terrorisme & l’Aide
aux Victimes du Terrorisme. Il titolo del loro rapporto: Siria, una
libanizzazione artificiale, è già molto indicativo del risultato della loro ricerca. Senza risparmiare critiche al regime siriano e alla sua gestione della crisi,
vi si dichiara senza tanti orpelli “la falsificazione orchestrata
degli eventi, il gioco degli attori stranieri che perseguono,
attraverso il loro sostegno agli oppositori, obbiettivi di politica
estera che nulla hanno a che vedere con la situazione interna del
Paese”. Il documento colloca la rivolta nella strategia
israelo-americana in Medio Oriente, che è stata battezzata come
“instabilità costruttiva”. Tale strategia, secondo gli analisti
francesi, “è basata su tre principî: creare e gestire conflitti a bassa
intensità, favorire lo spezzettamento politico e territoriale,
promuovere il settarismo, se non addirittura la pulizia
etnico-confessionale”. Insomma gli stessi principî che, come abbiamo
visto in precedenza, informavano il “Piano Bernard Lewis” e le linee
direttrici per Israele stilate da Oded Yinon.
Quel che si vuole distruggere, aggiunge la dottoressa Nadia Khost, siriana, autrice di molte opere sulla conservazione del patrimonio culturale della civiltà
araba, è “un Paese che si distingue per un tessuto sociale dove le
religioni, le confessioni e le etnie si mescolano in una unità
nazionale. Un Paese che traduce le opere della letteratura
mondiale, che ascolta la musica classica e la musica locale, e dove le
donne partecipano alla vita produttiva e pubblica”.
Non a caso la “nuova” bandiera tricolore con tre stelle riportata in
auge dal cns era quella in vigore durante l’occupazione coloniale
francese della Siria, quando appunto il paese era
smembrato in tre entità distinte. Proprio com’è avvenuto in Libia, con
la sola differenza che in questo caso il drappo “ufficiale” risale
all’epoca in cui il paese era sotto dominio anglo-americano.
“Tutto questo deve finire, e al più presto”, strepita al nostro
indirizzo un taxista le cui parole sono chiaramente riconducibili al
modus pensandi e forse anche operandi… del salafismo o della Fratellanza Musulmana.
Nell’ascoltare il suo eloquio esagitato mentre ci conduce per le
strade affollate di Damasco, un brivido corre lungo la schiena.
Soprattutto per frasi che, d’un lampo, materializzano quell’oggetto
impalpabile chiamato bipensiero così magistralmente descritto da George
Orwell. Per lui, come del resto per tutti i fanatizzati della sua
specie, “la Siria deve essere liberata dagli infedeli che la governano
e diventare al più presto un paese in cui regna la Sha’ria,
esattamente come nelle Teocrazie dell’Arabia Saudita e del Qatar… Al
Jazeera e Al Arabiya dicono la pura verità su quello che accade in
Siria, chi dice il contrario è un infedele… Israele fa il bene dei
palestinesi ed è un Stato amico. Vi raccontano un sacco di bugie su
Israele. Credetemi, è molto buono e ci aiuta tanto!… L’Occidente è
nostro alleato nella nostra lotta di liberazione… Dovete raccontare la
verità su tutte le bugie che vi dicono nei vostri paesi, cioè che
Bashar al-Assad è buono e fa il bene dei suoi cittadini... È un
bugiardo, il più grande bugiardo, dovete raccontarlo a tutti!...”, non
sapendo forse che è da un anno che i grandi media occidentali dipingono
il presidente siriano ad immagine e somiglianza di un mostro assetato
di sangue. Insomma, un miscuglio di ignoranza, fanatismo e creduloneria
che compendia fedelmente il tipo di ominide sul quale fanno presa i rigurgiti neofeudali che tentano di gettare nello scompiglio il paese.
Fortunatamente la Siria è composta per la maggior parte da ben altre
persone, quelle per esempio che nelle elezioni del 7 maggio hanno
tributato in tutto il paese una maggioranza schiacciante alla coalizione
riunita intorno al partito Ba‘th, garante dell’unità e del carattere
laico e a-confessionale dello status quo. Persone che magari ambiscono
del tutto legittimamente a migliorare le proprie condizioni di vita e a
far avanzare quelle del proprio paese, ma che hanno ben chiaro nella
loro mente e nei loro cuori che quanto gli viene presentato come
“alternativa” alla Siria di oggi è un futuro remoto costellato di
barbarie, un salto nel buio gravido di lotte intestine, di fanatismo
religioso, di guerra di tutti contro tutti, di conflitti etnici e
confessionali che ci si augurava di aver definitivamente gettato nella
pattumiera della Storia.
Perché
l’Occidente Atlantico, a fronte di un variegato panorama di partiti di
opposizione presenti in Siria, ha deciso unilateralmente che il cns sia
l’“unico rappresentante del popolo siriano”? Forse perché è il solo
raggruppamento, tra i tanti oppositori disponibili nel paese, che
spinge per un intervento militare della nato contro la Siria? Sulla
base di quale “istanza democratica” si è potuta prendere una decisione
così grave da passare addirittura sopra la testa di un intero popolo?
Chi autorizza queste entità (nato – petromonarchie del Golfo – Turchia –
Israele) a fare sfoggio di una tale arroganza in nome della “Democrazia”?
Domande talmente semplici da lasciare disarmati, ma che in ciò che
resta del decadente mondo occidentale non si ha più neppure la forza di
porre.
Chissà, forse nel tragico epilogo che
sembrava travolgere la Siria ma da cui siamo certi possa presto
riemergere con rinnovato vigore, è contenuto anche un messaggio che,
sia pure in forme per il momento meno traumatiche, può servire da
memento anche per il neofeudalesimo che ormai sembra lambire tutti i
paesi bagnati dal Mare Nostrum. Del resto il triste destino della Libia è lì a ricordarcelo ogni giorno.
Paolo Sensini |
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