cric..crac..!

Rinascita: L’Europa delle banche allegramente verso il crack

Uscire dall’euro, bloccare il debito pubblico. Per espellere i parassiti che lucrano a spese delle nazioni

Ugo Gaudenzi

I Signori del denaro e dell’usura, quelli che hanno amabilmente esportato la grave crisi finanziaria degli Stati Uniti nell’Europa occidentale, in particolare nella zona dell’euro - una moneta/specchio del dollaro - sanno molto bene quali siano i punti deboli delle manovre artificiose messe in atto per rallentare il crack strutturale. Riassumiamo le analisi, limitando a tre i problemi emersi sui quali a nulla o a poco potrà servire il “monteprestiti” detto salva-Stati ratificato giovedì dal Bundestag tedesco.
1) Crisi bancaria generale; 2) insolvenza greca (e di altri Stati-partners dell’Uem); 3) salvataggio delle economie indebitate: caso italiano (ma non solo).
Ma, per affrontare tali emergenze l’attuale fondo salva-Stati (Efsf), benché appena ricapitalizzato su spinta di Berlino, non è già sufficiente. Intanto perché passerà almeno un semestre per renderlo operativo. Poi perché, a conti fatti, occorrerebbe una disponibilità pari almeno a cinque volte quello che sarà raccolto.
“Stabilizzare l’eurozona” è una chimera. Una falsa meta inventata dai prestatori di denaro per continuare a mietere profitti.
Nessuna “manovra” (tasse e tagli a iosa (in Grecia, Irlanda, Portogallo e Italia), o ricapitalizzazioni delle banche alla spagnola), può fermare la decrescita produttiva, la recessione dietro l’angolo. Esiste una sola soluzione: uscire dall’euro espellendo i parassiti che lucrano sulle spese degli Stati nazionali.




Rinascita: Le imprese vogliono i soldi di una tassa patrimoniale

Il manifesto di Confindustria, cooperative, banche e assicurazioni chiede al governo di operare un esproprio di risorse

Filippo Ghira

La Confindustria, le imprese di vario ordine e grado e le banche vogliono soldi per sopravvivere e sostenere la concorrenza internazionale. E quale è l’unico posto dove trovarli? Ma è ovvio: le tasche dei cittadini. Fedele alla visione del mondo, sintetizzata dallo slogan. “Privatizzare i profitti e socializzare le perdite”, Emma Marcegaglia ha sposato l’idea di una tassa patrimoniale con la clausola, bontà sua, che questo serva a ridurre le tasse sui lavoratori (Irpef) e sulle imprese (Irap). Nello specifico dovrebbe essere una tassa dell’1,5 per mille sulle attività immobiliari e mobiliari escludendo però i patrimoni inferiori a 1,5 milioni di euro.
Il Manifesto delle imprese per lo Sviluppo presentato ieri dall’industriale siderurgica mantovana per conto di Confindustria, Rete Imprese  Italia, Abi (banche), Ania (assicurazioni) e Cooperative Italiane si impone l’ambizioso obiettivo di “salvare l'Italia e rilanciare la crescita”. Il tutto bypassando il governo in carica se questo dimostrerà ancora incertezze e incapacità nell’andare avanti e adottare le misure necessarie a permettere alle imprese di sopravvivere.
Gli dei ci salvino dai salvatori, si potrebbe replicare. Non ci vogliamo sostituire alla politica, ha messo le mani avanti Marcegaglia, non spetta a noi dire che il Governo deve cambiare ma diciamo che il momento è complesso e c'è una grave urgenza. Di conseguenza, non c’è più tempo, servono riforme coraggiose, subito. La situazione è complessa e preoccupante. Certo, gli industriali sono pronti a fare la propria parte ma serve una politica economica diversa. In ogni caso andrebbe bene se il governo varasse le misure per lo sviluppo a metà ottobre.
Le nostre proposte, ha ammesso. prevedono sacrifici (per i cittadini) ma anche vantaggi (per le imprese) perché le risorse che si libereranno potranno essere investite per la crescita. Appunto. Non potendo competere con le imprese dei Paesi emergenti che hanno un costo del lavoro 8-10 volte inferiore al nostro, non avendo investito in passato risorse adeguate nell’innovazione tecnologica preferendo investire nel settore immobiliare, adesso le imprese italiane si trovano con l’acqua alla gola e insistono nel rimarcare l’incapacità del governo, e dei governi precedenti, a metterle in grado di operare, creando ad esempio un adeguato sistema infrastrutturale. Pecche che sicuramente ci sono ma che non sono la ragione prima della crisi dell’industria e più in generale dell’impresa italiana. Certo non tutte le imprese sono come la Fiat che da anni ha rinunciato ad investire sull’innovazione di prodotto e che anzi non vede l’ora di chiudere baracca e burattini in Italia, ma sarebbe il caso che le imprese facessero un bell’esame di coscienza e ricordare quante di loro hanno chiuso le fabbriche e sono andate a produrre all’estero in Europa e Asia dove il costo del lavoro è molto minore. Alla fine sempre lì si casca.
Del resto che si tratti di una questione di costi è dimostrato dalla strada scelta dalle principali imprese italiane, sulla scia di quanto già realizzato dalla Fiat, di procedere sulla militarizzazione delle fabbriche, cancellando il contratto nazionale e lo Statuto dei lavoratori sostituiti da contratti a livello aziendale, uno per ogni fabbrica sia pure nella stessa azienda, e portando la busta paga ad essere sempre più condizionata dal peso degli straordinari e dei premi di produzione. Non è un caso infatti che toccando il tema dell’accordo del 28 giugno con i sindacati sulla contrattazione aziendale e sulla rappresentanza, la padrona delle ferriere abbia sottolineato che il mercato del lavoro necessiti di maggiore flessibilità sia in entrata che in uscita. Ci vuole insomma libertà di licenziamento come ai bei tempi di Bava Beccaris. In ogni caso le imprese sono con la loro presidentessa e le hanno affidato una delega per lasciare eventualmente i tavoli di discussione con il Governo sulla crescita economica in caso di mancate risposte alle proposte elaborate da Confindustria, da lei definite “coraggiose” perché ci vogliono davvero un bel coraggio e una bella faccia tosta a presentarle. Infine la Marcegaglia ha respinto l’accusa rivolta alle aziende di beneficiare di ingenti sussidi pubblici. Il totale dei sussidi alle imprese ammonta  a 36 miliardi di euro, ha ricordato, ma nel 2010 alle imprese private sarebbero andati solo 2,7 miliardi di euro. Gli altri sarebbero andati alle municipalizzate quindi, voleva dire la Marcegaglia, ad un settore legato a filo doppio alla politica.
Quanto ai punti del Manifesto per la crescita si tratta di cinque priorità. La prima riguarda le pensioni con l’aumento del’età pensionabile a 65 anni per tutti agganciando al più presto (entro il 2012) la data della pensione con l'aumento della speranza di vita. La seconda è una riforma fiscale con il fine di ridurre il costo del lavoro. Sgravi per gli apprendisti, per gli investimenti nell’innovazione e per le parti di salario legate agli aumenti di produttività ed efficienza. La terza riguarda una diminuzione dell’Ires a fronte di nuovi capitali immessi in azienda. Ma riguarda anche la creazione di uno Stato fiscale di polizia con la cancellazione del contante a favore delle carte di credito (operazioni per contante solo fino a 500 euro) e con l’obbligo di indicare i beni di proprietà nella dichiarazione dei redditi.
Poi, quarto punto, la cessione del patrimonio immobiliare statale e locale, utilizzando i ricavi per opere pubbliche ed altro. Quinto ed ultimo punto riguarda la liberalizzazione di tutte le attività professionali e la semplificazione di tutti i procedimenti amministrativi.
Per Paolo Ferrero, segretario nazionale di Rifondazione Comunista, le proposte avanzate da Confindustria sono peggio di quelle di Berlusconi e aggraverebbero la   crisi. In particolare, ha sottolineato, “la proposta di abolire le pensioni di anzianità  e di privatizzare tutto la dicono lunga sull'egoismo di classe delle proposte dei padroni”. E allora, “di fronte a queste due destre che si scontrano su come sfruttare meglio lavoratori e pensionati vi è soltanto la strada delle elezioni anticipate per battere Berlusconi e nel contempo sconfiggere i propositi di Marcegaglia. Sarebbe bene che Bersani, Di Pietro e Vendola dicessero parole chiare su questo”. Ma Ferrero sa, domandiamo noi, che il PD in economia è schierato molto più a destra di Berlusconi e che auspica sempre e comunque più Libero Mercato?  Ferrero sa che il PD con molti suoi uomini è legato a filo doppio (vedi il Prodi della Goldman Sachs) al mondo delle banche?
 

Rinascita: Il debito pubblico, un mostro generato dall’usura

Lo Stato deve tornare a battere moneta in nome e per conto dei suoi cittadini. La Banca centrale deve essere nazionalizzata

di Savino Frigiola

Da più parti e dai più disparati schieramenti, con sempre maggior vigore, giungono esortazioni a non pagare il mastodontico debito pubblico nazionale. Man mano che i vari soggetti arrivano a quantificare mentalmente l’ammontare della cifra, con tanti zeri da renderla addirittura illeggibile, (circa un milione 935 mila 300 milioni di Euro) per rendersi conto del significato, si cominciano a fare alcune considerazioni paragonandola a prodotti e beni reali esistenti di valore equivalente.
C’è da restare allibiti. Dai primi sommari conteggi emergono risultati a dir poco inimmaginabili e sconcertanti. Il debito pubblico è pari a 3 volte il valore dell’intero patrimonio immobiliare privato Italiano, a 8 volte il valore di tutti gli immobili dello Stato Italiano: scuole, ospedali, caserme, enti pubblici, porti, aeroporti, ferrovie ecc. ecc. Se si volesse pagare il debito pubblico occorrerebbero ben 33 manovre come l’ultima disastrosa di 59 miliardi, e vi è ancora da aggiungere gli interessi passivi pretesi nei 32 anni successivi. Se volessimo pagarlo con prodotti della nostre industrie ci vorrebbe l’intera produzione annuale delle macchine della FIAT (n° 1.781.000 di automobili Panda ) per un minimo di 128 anni. Se volessimo pagarlo con prestazioni di lavoro occorebbero 20 milioni di lavoratori che dovrebbero lavorare gratis in tutti i giorni di un anno ( 365 giorni) per 10 ore al giorno a 10 €\ora. Non occorre essere grandi e blasonati economisti per comprendere che una tale mole di debito non potrà essere mai pagata, anche se decidessimo di consegnare ai nostri famelici strozzini l’intero patrimonio immobiliare sia pubblico che privato.
Poiché secondo le regole truffaldine poste in essere dalla cricca bancaria monetaria, colposamente recepite dall’imbelle e compiacente classe politica senza alcuna distinzione di colore, quand’anche si dovesse arrivare alla spoliazione totale di tutti i beni nazionali del Paese, resteremmo comunque inadempienti, tanto vale smettere di mortificare il livello di vita dei cittadini anche con l’abbattimento delle attività sociali e risparmiarci la squallida sceneggiata di selezionare con grande cura i gioielli di famiglia da consegnare ai famelici banchieri, per poi raggiungere l’inutile risultato di procrastinare solo di qualche mese l’inevitabile crack finale. Ma la ragione più importante per non pagare il debito pubblico non è tanto dovuta alla natura giuridica dell’impossibilità ad adempiere, quanto alla truffaldina causa dell’indebitamento, frutto di un colossale raggiro posto in essere dalla cricca monetaria in combutta con un ristretto numero di politici, a danno dei cittadini, che si verifica in occasione dell’attuale emissione monetaria per mano di banchieri privati, causata dall’adesione al “trattato di Maastrikt”. Anche secondo il parere si insigni giuristi internazionali il “debito detestabile” non deve essere pagato.
Mutuando sinteticamente quanto riportato sul sito “Modart”, i tre requisiti necessari per poter definire un debito pubblico “detestabile” sono : 1) Il governo del Paese deve aver conseguito il prestito senza che i cittadini ne fossero consapevoli e senza il loro consenso. 2) I prestiti devono essere stati utilizzati per attività che non hanno portato benefici alla cittadinanza nel suo complesso. 3) I creditori devono essere al corrente di questa situazione, e disinteressarsene. C’è nè in abbondanza per mettere sotto processo banchieri e politici aventi causa, non solo per non pagare ma anche per ottenere il ristoro dei danni arrecati come egregiamente stanno facendo i cittadini Islandesi. Per fugare ogni incertezza in tal senso è sufficiente osservare l’Argentina la quale, messa in crisi con le solite manovre economiche, sbarazzatesi di tutti gli orpelli monetari ora cresce di 7 – 8 % ogni anno. Scansare il debito non è sufficiente per rilanciare economia ed occupazione poiché le nuove risorse necessarie per gli investimenti produttivi producono altro debito che viceversa deve essere bloccato. Per far ciò lo Stato italiano, memore delle sue esperienze pregresse deve ritornare a battere moneta in prima persona. Se i titoli di debito dello Stato sono buoni e valgono, al punto da essere accettati e scontati dagli avveduti e prudentissimi banchieri privati, valgono anche i titoli monetari emessi dallo stesso Stato, che riprende a battere moneta in nome e per conto dei propri cittadini. Ne acquisisce la proprietà a titolo originario, iscrivere la cifra corrispondente al signoraggio all’attivo del proprio bilancio e la utilizza per il conseguimento dei suoi scopi istituzionali, a favore dei cittadini, per rilanciare economia, occupazione e ricerca come da centennale esperienza già effettuata dal 1874 al 1975. Ciò ha consentito, subito dopo l’unità d’Italia, di realizzare tutte le infrastrutture necessarie al nuovo Stato nazionale, compreso i famosi palazzi e quartieri “umbertini”, ancora esistenti in tutta l’Italia, senza imporre tasse ai cittadini e senza accendere debiti. Successivamente utilizzando sempre la stessa emissione monetaria si sono realizzate una miriade di opere pubbliche ancora esistenti dalle inconfondibili linee architettoniche, “razionalista” e del Piacentini anche queste senza aumentare il debito pubblico che anzi, sino al 1940 era rimasto stabile al 20 % (tra i più bassi della storia d’Italia) per passare poi al 25% nel 1945, dopo una guerra persa. Successivamente lo Stato continuò a battere moneta sino al 1975. Gli introiti così incamerati hanno seriamente contribuito alla ricostruzione del territorio nazionale devastato dagli eventi bellici (all’inizio degli anni 70 il debito pubblico era sceso al 20 %). Tutto ciò a conferma e dimostrazione che il debito pubblico è generato dall’emissione monetaria dei banchieri privati. Se vogliamo restare in Europa occorre una piccola deroga ai trattati europei, troppo frettolosamente firmati, come quelli già effettuati anche da Paesi più blasonati di noi. Le ultime due, hanno permesso a due banche della Grecia e dell’Irlanda di emettere direttamente moneta con la benedizione della ELA (Emergency Liquidity Assistance) - BCE. Ciò che è consentito a due banche private non può potrà essere negato ad uno Stato sovrano.
  http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=10671

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