Fino a quando?


Un altro 8 settembre, un altro tradimento della nostra classe dirigente  di Francesco Lamendola - 09/09/2011

Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]

Siamo arrivati all’appuntamento annuale con l’8 settembre: con la data più funesta della nostra storia nazionale, nella quale si concentrano tutte le bassezze, tutti i nodi irrisolti, tutte le contraddizioni del sistema Italia e dello stesso carattere del nostro popolo.
Ma questo 8 settembre del 2011 ha qualcosa di nuovo e di diverso rispetto a quelli degli ultimi anni; qualcosa che lo avvicina sinistramente al modello originale, caratterizzato dallo sfascio dell’organizzazione statale, dalle manovre di palazzo di una classe dirigente che voleva salire comunque sul carro del vincitore o, almeno, scendere da quello del probabile sconfitto; e, soprattutto, dalla fuga collettiva dalle responsabilità di un intero esercito e di un intero popolo, al grido irresponsabile di: «Tutti a casa!».
Ciò che maggiormente dà la sensazione di una infausta analogia con l’8 settembre del 1943 è, da un lato, il tradimento dei vertici dello Stati nei confronti del cittadino, abbandonato in balia di una crisi economica devastante, che è, al tempo stesso, una vera e propria crisi morale; e, dall’altro, il senso di scoraggiamento, di disfatta, di “si salvi chi può” che sembra dilagare a tutti i livelli della società civile, ove ognuno pare talmente preso dallo sforzo di sopravvivere, di salvare o di trovare un posto di lavoro, di arrivare alla fine del mese, da non avere più tempo né voglia di guardarsi intorno, di ricordarsi degli altri e soprattutto di ritrovare quel senso del dovere che, in una società coesa, lega necessariamente i singoli membri al gruppo di cui sono parte.
I dati statistici, nella loro nuda essenzialità, ci dicono che, in questi ultimi anni e decenni, i grandi patrimoni legati alle rendite finanziarie non sono cresciuti di numero, ma sono enormemente aumentati di dimensioni, al punto da assorbire una fetta cospicua dell’intera economia nazionale. Per essere precisi, secondo i dati ufficiali del marzo scorso, la metà dell’intera ricchezza nazionale è concentrata nelle mani di meno del 10% della popolazione; mentre l’80% della ricchezza appartiene solo al 20% degli Italiani: sono dati impietosi, impressionanti, che dovrebbero far riflettere più di qualunque discorso.
Crisi o non crisi, anzi, proprio grazie alla crisi, i ricchi si sono arricchiti ancora di più: questo è il punto centrale della questione; è da qui che bisognerebbe partire per fare una riflessione seria su quel che è accaduto in Italia negli ultimi anni e su quel che si dovrebbe fare di fronte a una crisi economica che rischia di farci precipitare ai livelli della Grecia, di distruggere quel poco che rimane della nostra credibilità internazionale, di dare il colpo di grazia alla nostra economia, provocando ulteriore disoccupazione, crescente inflazione della moneta, il collasso del sistema creditizio e un movimento complessivo di recessione di tutto l’apparato produttivo.
E mentre il governo attualmente in carica, indeciso a tutto fuor che a risparmiare i grandi patrimoni, non sa più cosa inventarsi per imporre nuove tasse ed imposte, spremendo oltre ogni limite di sopportazione sempre i soliti noti, a cominciare dai lavoratori a reddito fisso (in un Paese in cui un dentista dichiara al fisco di percepire un redito mediamente inferiore a quello di un operaio), le cronache sono ancora costrette ad occuparsi degli scandali, degli intrallazzi e delle orgette dei nostri uomini politici. Quegli stessi uomini politici che vivono gratis in case di lusso e intanto ci chiedono sacrifici; che deprecano l’illegalità dilagante, e intanto utilizzano le forze di polizia per scortare le escort nelle loro ville private; che si lanciano in lunghe ed edificanti concioni sul senso dello Stato e intanto risultano compromessi in sempre nuove vicende di malaffare e di mala amministrazione pubblica.
Questo è un autentico tradimento ai danni del popolo italiano.
Ancora una volta i signori del Palazzo brigano e tramano nell’ombra e, dopo aver succhiato come piovre tutto quel che c’era da succhiare in termini di onori, guadagni e potere, si apprestano a scaricare sulla massa i costi salatissimi dei loro errori, delle loro irresponsabilità, delle loro colpe senza scusanti.
Ancora una volta, dopo aver sguazzato nei privilegi ed essersi ritagliati addirittura delle leggi ad hoc per poter seguitare indisturbati nei loro maneggi, ponendosi al di sopra delle leggi che il comune cittadino è tenuto a rispettare, i signori del Palazzo si apprestano a scappare dai loro posti di responsabilità, lasciando il Paese allo sbando; preparandosi, però, a riciclarsi, per poter saltare nuovamente sul carro giusto, non appena le circostanze torneranno favorevoli.
E mentre il Paese è commissariato dalla Banca Centrale Europea e subisce l’estrema umiliazione di perdere anche l’ultima ombra di sovranità e di dignità nazionale, questo governo moribondo continua a preoccuparsi solo e unicamente di se stesso, di difendere i propri interessi e getta perfino la nazione in un vergognoso conflitto internazionale, nel quale essa non ha nulla da guadagnare e tutto da perdere, per la sola ragione che è troppo debole e screditato per dire di no alla N. A. T. O., come pure ha fatto la Germania, o per dire di no a chiunque altro, all’esterno come all’interno, faccia la voce abbastanza grossa.
Così, per esempio, mentre il governo taglia spietatamente i fondi agli enti locali per fare cassa (altro che riforme strutturali!), un partito che è parte essenziale della maggioranza e del governo stesso, protesta vigorosamente contro quei tagli; mentre il governo decide l’intervento armato in Libia, quello stesso partito protesta e critica apertamente tale decisione; e così via: una ignobile sceneggiata, un gioco delle parti in cui chi sta al governo si comporta come se fosse all’opposizione e chi sta all’opposizione non sa trovare un minimo di credibilità per candidarsi seriamente a sostituire un simile governo.
Qui, ahimè, vengono a galla non solo i vecchi e mai dismessi vizi della nostra classe dirigente, ma anche quelli del carattere nazionale, del popolo italiano come soggetto politico: la sua faciloneria, la sua mezza furbizia, la sua rassegnazione, che è solo l’altra faccia della medaglia del suo incorreggibile opportunismo.
Perché, parliamoci chiaro, in Italia nessuno si muove, nessuno si indigna, nessuno protesta, se non viene toccato e molestato direttamente, nel portafoglio e nei piccoli privilegi tacitamente acquisiti; nessuno si ricorda di avere anche dei doveri verso la collettività, se non quando vede messi in discussione i suoi veri o presunti diritti; nessuno si sente la coscienza sporca se approfitta, in un modo o nell’altro, di situazioni palesemente ingiuste, salvo poi levare altissimi strepiti se tanta furbizia gli si ritorce contro e finisce per penalizzarlo.
Non ci siamo forse affidati a un avventuriero, a un giullare, a un megalomane, che se ne infischia, e se ne è sempre infischiato, della legalità e della decenza, pensando che, se era stato così bravo a curare i suoi affari privati, lo sarebbe stato altrettanto nel curare quelli dei suoi concittadini? E non è forse, questo modo di ragionare, tipico di una certa cialtroneria nazionale, di una certa cultura semi-mafiosa, che non bada in alcun modo al rispetto delle regole, ma solo e unicamente al tornaconto personale, comunque esso venga perseguito?
Si raccoglie quel che si è seminato: come indignarsi se i signori del Palazzo hanno calpestato il mandato ricevuto dal popolo, perseguendo in maniera spudorata i propri interessi e non quelli collettivi, visto che sono stati democraticamente eletti, anche se molti di essi avevano dei conti aperti con il fisco o con la giustizia, se erano in odore di mafia o di corruzione, se erano chiacchieratissimi ancor prima di diventare deputati e senatori?
Adesso costoro stanno gettando la maschera e, pur di proteggere se stessi, non si curano più nemmeno di salvare le apparenze.
Che altro è, ad esempio, se non una rottura del patto fiduciario tra governanti e governati, la decisione del governo di autorizzare la diffusione in rete delle dichiarazioni dei redditi dei privati cittadini? In uno Stato serio, è con la Finanza che ci si occupa di indagare sull’evasione fiscale, non mettendo alla gogna mediatica i sospettati: altro che liberalismo e tutela del cittadino!
E meno male che simili provvedimenti vengono presi, con la massima disinvoltura, da un governo che si è sempre definito liberale; che cosa sarebbe successo se avessimo avuto un governo d’ispirazione socialista o laburista?
Qui è il concetto stesso di democrazia che si sta incrinando ed è ormai sul punti di spezzarsi nella coscienza dei cittadini: perché cosa è mai è la democrazia, se non un sistema politico basato sulla delega del potere dal cittadino ai suoi rappresentanti eletti, sulla base della fiducia e di quella che i Romani chiamavano “bona fides”?
Altro che “bona fides”: questo è un autentico tradimento, da parte dei governanti, nei confronti dei governati; con l’aggravante che questi ultimi sapevano benissimo di non potersi fidare per niente dei loro rappresentanti, ma che non avevano, alla lettera, alcuna alternativa, perché i candidati di uno schieramento erano suppergiù sullo stesso livello degli altri: furbastri, intrallazzatori, cinici e incuranti delle leggi, proprio loro che dovrebbero esserne i custodi.
Ecco perché l’8 settembre del 2011 assomiglia terribilmente all’8 settembre del 1943: anche questa volta si profila un collasso della società civile; anche questa volta si delinea la morte della patria; anche questa volta i signori del palazzo fuggono con le valigie piene di denaro, mentre il popolo raccoglie i frutti amari della demagogia, del qualunquismo, dell’indifferenza, della vigliaccheria e della mancanza di serietà.
La classe dirigente sta tradendo il Paese; ma il Paese aveva fatto di tutto per essere tradito, incoraggiando in ogni modo i suoi altolocati parassiti.
C’è corrispondenza, purtroppo, fra chi sta in alto e chi sta in basso: le responsabilità non sono uguali, ma ve ne sono da entrambe le parti: gli uni, come sempre, hanno peccato di arroganza, di egoismo, di avidità; gli altri hanno peccato, come sempre anch’essi, di spirito gregario, bovino, nonché di quella misera astuzia che alla fine si ritorce contro se stessa.
Abbiamo bisogno di uno scatto di orgoglio; abbiamo bisogno di serietà.
Gli Italiani devo dimostrare, a se stessi e al mondo, di meritarsi qualcosa di meglio di questa miserabile classe dirigente, di questa classe dirigente da Terzo Mondo, che spadroneggia senza ritegno finché le cose vanno bene e che poi, quando le cose volgono al peggio, riempie di bigliettoni le valigie e si eclissa con la rapidità del fulmine, lasciando l’intero apparato statale senza ordini, senza direttive, senza domani: come avvenne l’8 settembre 1943.
Il Satrapo ha detto che non vede l’ora di andarsene via da «questa Italia di merda», come lui l’ha definita: una frase che nessun Francese, nessun Tedesco, nessun Britannico avrebbe mai tollerato, né perdonato, dalla bocca del proprio capo del governo; forse nemmeno nessun abitante del Burkina Faso, del Ruanda o della Repubblica di Haiti.
Esistono dei limiti all’impudenza, alla volgarità, al disprezzo dei cittadini-sudditi; perfino nelle mezze democrazie, come lo è la nostra.
Quei limiti sono stati abbondantemente oltrepassati e non da oggi, né da ieri; è ormai da molti anni che noi abbiamo perso la stima del resto del mondo e il rispetto di noi stessi.
Questa classe dirigente è arrivata al capolinea, ma non per merito nostro: è stata la crisi economica a spingerla verso la nuova Caporetto; senza di quella, diciamocelo francamente, avremmo ancora taciuto e sopportato.
Adesso l’importante è non permettere che i vecchi volponi si riciclino come niente fosse, o che il loro posto venga preso da individui della stessa pasta, dello stesso livello morale: e non sarà facile, perché non ce ne sono molti in giro che abbiano tali caratteristiche.
In verità, è l’intero carattere nazionale che andrebbe riformato; è tutto il modo di pensare del cittadino comune, che dovrebbe subire una radicale trasformazione.
Dobbiamo smetterla di pensare solo al nostro orticello, solo al nostro angolino, alla nostra nicchia privata; dobbiamo imparare a pensare in grande.
A che cosa serve avere la casa bella e pulita, se fuori, in strada, si accumulano montagne d’immondizia, che rendono l’aria irrespirabile e mefitica?
Proviamo ad uscire, almeno un po’, dal nostro “particulare”, come lo chiamava Guicciardini; proviamo a fare “mea culpa” e ad imparare, umilmente, un po’ di serietà dai nostri stessi errori.

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