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Macché debito: usciamo dall’euro e dal dogma tedesco


«Rimuoviamo l’euro, e l’Italia avrà meno bisogno dei mercati, mentre i mercati continueranno ad avere bisogno dei 60 milioni di consumatori italiani». Lo afferma l’economista Alberto Bagnai, secondo il quale l’uscita dalla moneta unica europea è l’unica soluzione per superare la crisi del debito addossata allo Stato, che non può più utilizzare la leva della svalutazione. A guadagnarci è solo Berlino: «La domanda dei paesi europei, drogata dal cambio fisso, sostiene la crescita tedesca: e la Germania non rinuncerà a un’asimmetria sulla quale si sta ingrassando». Se il cambio è fisso, il peso dell’aggiustamento si scarica sui prezzi, che possono diminuire solo tagliando i salari e spremendo i lavoratori: «Precarietà e riduzioni dei salari sono dietro l’angolo, la sinistra che vuole l’euro ma non vuole Marchionne mi fa un po’ pena», dice Bagnai.
«Sgomenta l’unanimità con la quale destra e sinistra continuano a concentrarsi sul debito pubblico», scrive l’economista sul “Manifesto” il 23 Romano Prodiagosto. «Che lo faccia la destra non è strano: il contrattacco ideologico all’intervento dello Stato nell’economia è il fulcro della “controriforma” seguita al crollo del Muro». Eppure, «nessun economista ha mai asserito, prima del trattato di Maastricht, che la sostenibilità di un’unione monetaria richieda il rispetto di soglie sul debito pubblico». Il dibattito sulla “convergenza fiscale” è nato dopo Maastricht, osserva Bagnai: a riprova che soglie sono «insensate» e che Maastricht «è un manifesto ideologico: meno Stato (ergo più mercato)». Ma perché, a sinistra, nessuno mette in discussione questo dogma?
Se il problema fosse il debito pubblico, continua Bagnai, dal 2008 la crisi avrebbe colpito prima la Grecia (debito al 110% del Pil), e poi Italia (106%), Belgio (89%), Francia (67%) e Germania (66%). Gli altri paesi dell’eurozona avevano debiti pubblici inferiori. La crisi, invece, è esplosa prima in Irlanda (debito pubblico al 44% del Pil), Spagna (40%), Portogallo (65%), e solo dopo Grecia e Italia. Cosa accomuna questi paesi? «Non il debito pubblico (minimo nei primi paesi colpiti, altissimo negli ultimi), ma l’inflazione: già nel 2006 la Bce indicava che in Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna l’inflazione non stava convergendo verso quella dei paesi “virtuosi”», cioè Germania, Francia e Belgio. «Questo sì che era un problema: gli economisti sanno da tempo che tassi di inflazione non uniformi in un’unione monetariaGrecia scontriconducono a crisi di debito estero, prevalentemente privato».
Se in un paese i prezzi crescono più in fretta che nei suoi partner, ragiona Bagnai, quel paese esporta sempre meno e importa sempre più, mandando in deficit la bilancia dei pagamenti. La valuta necessaria per acquistare i beni è meno richiesta e il suo prezzo scende, cioè il paese svaluta: in questo modo i suoi beni ridiventano convenienti e lo squilibrio si allevia. Effetti uguali e contrari si producono nei paesi in surplus, la cui valuta diventa scarsa e si apprezza. Ma se il paese è legato ai suoi partner da un’unione monetaria, il prezzo della valuta non può ristabilire l’equilibrio esterno, e quindi le soluzioni sono due: o il paese deflaziona, o i suoi partner in surplus inflazionano.
Nella visione keynesiana, i due meccanismi sono complementari: ci si deve venire incontro, perché surplus e deficit sono due facce della stessa medaglia (non puoi essere in surplus se nessuno è in deficit). Ai tagli nel paese in deficit deve accompagnarsi un’espansione della domanda nei paesi in surplus. Ma la visione prevalente è asimmetrica: l’unica inflazione buona è quella nulla, i paesi in surplus sono “buoni”, e sono invece i “cattivi”, quelli in deficit, a dover deflazionare, convergendo verso i buoni. E se non ci riescono? Le entrate da esportazioni diminuiscono e ci si deve indebitare con l’estero per finanziare le proprie importazioni. I paesi a inflazione più alta sono anche quelli che hanno accumulato più debito estero dal 1999 al 2007: Grecia (+78 punti di Pil), Portogallo (+67), Irlanda (+65) e Spagna (+62). Con il debito crescono gli interessi, e si entra nella spirale: ci si Berlusconiindebita con l’estero per pagare gli interessi all’estero, aumenta lo spread e scatta la crisi.
«Pensate veramente che ai mercati interessi con chi va a letto Berlusconi?», si domanda Bagnai. «Pensate che si preoccupino perché il debito pubblico è “alto”? Ma il nostro debito pubblico è sopra il 100% da 20 anni, e i nostri governi, anche se meno folcloristici, sono stati spesso più instabili». Non è questo che preoccupa i mercati, scrive l’economista sul “Manifesto”: «Quello che li preoccupa è che oggi, come nel 1992, il nostro indebitamento con l’estero sta aumentando, e che questo aumento, come nel 1992, è guidato dall’aumento dei pagamenti di interessi sul debito estero, che è in massima parte debito privato, contratto da famiglie e imprese (il 65% delle passività sull’estero dell’Italia sono di origine privata)».
Risultato: chi non deflaziona accumula debito estero, fino alla crisi, in seguito alla quale lo Stato, per evitare il collasso delle banche, si accolla i debiti dovuti agli squilibri esterni, trasformandoli in debiti pubblici. «Alla privatizzazione dei profitti segue la socializzazione delle perdite, con il vantaggio di poter incolpare a posteriori i bilanci pubblici». Una scelta, dice ancora Bagnai, che è frutto della «ottusità ideologica» di chi si concentra sul sintomo (lo squilibrio pubblico, che può essere corretto solo tagliando), anziché sulla causa (lo squilibrio esterno, che potrebbe essere corretto cooperando). Il fatto è che i “buoni” non volevano affatto cooperare: «Lo scopo che si voleva raggiungere, cioè la “disciplina” dei lavoratori, è stato raggiunto».
Per capire perché l’Europa non funziona, basta guardare – in piccolo – all’Italia, nata anch’essa dall’unione di entità separate: «Festeggiamo quest’anno il 150° anniversario dell’unione monetaria, fiscale e politica del nostro paese. “Più Italia” l’abbiamo avuta, non vi pare? Ma 150 anni dopo la convergenza dei prezzi fra le varie regioni non è completa, e il Sud ha un indebitamento estero strutturale superiore al 15% del proprio Pil, cioè sopravvive importando capitali dal resto del mondo (ma in effetti dal resto d’Italia)», osserva Bagnai. «Dopo cinquant’anni di integrazione fiscale nell’Italia (monetariamente) unita abbiamo le camicie verdi in Padania: Hitler e le camicie brunebasterebbero dieci anni di integrazione fiscale nell’area euro, magari a colpi di Eurobond, per riavere le camicie brune in Germania».
L’integrazione fiscale non è politicamente sostenibile, afferma il professor Bagnai, perché «nessuno vuole pagare per gli altri, soprattutto quando i media, schiavi dell’asimmetria ideologica, bombardano con il messaggio che gli altri sono pigri, poco produttivi, che “è colpa loro”. Siano greci, turchi, o ebrei, sappiamo come va a finire quando la colpa è degli altri». Per di più siamo sostalzialmente paralizzati dall’euro, che per Bagnai è l’esito di due processi storici, che sono «il contrattacco del capitale» per recuperare l’arretramento determinato dal new deal post-bellico», e anche «la lotta secolare della Germania per dotarsi di un mercato di sbocco». A destra come a sinistra, «ci si estasia per il successo della “locomotiva” d’Europa», sostenendo che cresca intercettando la domanda dei paesi emergenti, ma i dati smentiscono i fan della Germania: dal 1999 al 2007 il surplus tedesco è aumentato di 239 miliardi di dollari, di cui 156 realizzati in Europa, mentre il saldo commerciale verso la Cina è peggiorato di 20 miliardi.
I giornali dicono che la Germania esporta in Oriente e così facendo ci sostiene con la sua crescita? Peccato che i dati dicano il contrario, osserva Bagnai. «Ma perché i governi “periferici” si sono fatti abbindolare dalla Germania?». Forse perché la moneta unica favorisce una “illusione della politica economica” che «permette ai governi di perseguire obiettivi politicamente improponibili, cavandosela col dire che sono imposti da istanze sopraordinate». Per questo, aggiunge sarcastico il professor Bagnai, «non è strano che un sistema a guida tedesca sia retto dal principio di Goebbels: basta ripetere abbastanza una bugia perché diventi una verità». Angela Merkel Esempio: effimeri i vantaggi dell’infazione? Falso: dopo il ’92, l’Italia galoppò a una media del 2% fino al 2001. Cioè al fatidico ingresso nell’euro.
«Certo, la svalutazione renderebbe più oneroso il debito definito in valuta estera», ammette Bagnai, ma in compenso «porterebbe da una situazione di indebitamento estero a una di accreditamento estero, producendo risorse sufficienti a ripagare i debiti, come nel 1992». Infine, rimarrebbe la possibilità del default. «Prodi vuol far sostenere una parte del conto ai “grossi investitori istituzionali”? Bene: il modo più diretto per farlo non è emettere Eurobond “socializzando” le perdite a beneficio dellaGermania (col rischio camicie brune), ma dichiarare, se sarà necessario, il default, come hanno già fatto tanti paesi che non sono stati cancellati dalla geografia economica per questo. È già successo e succederà».
“I mercati ci puniranno, finiremo stritolati!”. «Altra idiozia», dice Bagnai. «Per decenni l’Italia è cresciuta senza ricorrere al risparmio estero. È l’euro che, stritolando i redditi e quindi i risparmi delle famiglie, ha costretto il paese a indebitarsi con l’estero. Il risparmio nazionale lordo, stabile attorno al 21% dal 1980 al 1999, è sceso costantemente da allora fino a toccare il 16% del reddito. Nello stesso periodo le passività finanziarie delle famiglie sono raddoppiate, dal 40% all’80%». E allora? Prima o poi dall’euro usciremo, «perché alla fine la Germania segherà il ramo su cui è seduta». Ma Alberto Bagnainel frattempo, se continua a «fare ciò che fa la destra», la sinistra italiana ed europea sarà completamente distrutta.
«Berlusconi se ne andrà: dieci anni di euro hanno creato tensioni tali per cui la macelleria sociale deve ora lavorare a pieno regime. E gli schizzi di sangue – scrive ancora Bagnai – stonano meno sul grembiule rosso». E spiega: «Sarà ancora una volta concesso alla sinistra della Realpolitik di gestire la situazione, perché esiste un’altra illusione della politica economica, quella che rende più accettabili politiche di destra se chi le attua dice di essere di sinistra». Ad annaspare di più, continua l’economista, sono proprio i politici di sinistra, «stretti fra la necessità di ossequiare la finanza e quella di giustificare al loro elettorato una scelta fascista non tanto per le sue conseguenze di classe, quanto per il paternalismo con il quale è stata imposta». Vie d’uscita? «Mi rendo conto che, in un paese nel quale basta una legislatura per meritarsi una pensione d’oro, il lungo periodo possa non essere un problema dei politici di destra e disinistra. Questo spiega tanta unanimità di vedute».

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