La festa alla Repubblica

 La festa alla Repubblica

http://www.cpeurasia.eu/1491/la-festa-alla-repubblica
Fabio Falchi // 8 giugno 2011
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Correva l’anno 1992, allorché sul panfilo Britannia, il giorno della festa della Repubblica, manager e banchieri della City s’incontrarono con alcuni membri della classe dirigente italiana. In un articolo, pubblicato dal Corriere della Sera il giorno dopo, Massimo Gaggi osservava che “in apertura del simposio il direttore generale del Tesoro Mario Draghi [sic!] aveva spiegato che il processo di privatizzazione incontra molte difficoltà , ma almeno in parte verrà realizzato [...]
Non sarà l’albero della cuccagna ma, a scuoterla, la quercia delle Partecipazioni statali può ancora dare un bel po’ di ghiande” (vedi http://archiviostorico.corriere.it/1992/giugno/03/Inglesi_cattedra_privatizzazioni_fate_come_co_0_92060319034.shtml ). Nessuna cospirazione, quindi, nulla di ciò che manda in solluchero gli ingenui complottisti e ancor di più i cacciatori di perle complottiste, che pensano che tutti siano paranoici tranne loro (il che è caratteristisco proprio di chi è paranoico e socialmente pericoloso). In realtà, la quercia di ghiande ne ha date molte, e a buon prezzo, ai “pigs” della City e ad altri “pigs”, mentre nel giro di pochi lustri il Paese si è trovato ad affrontare una gravissima crisi mondiale nelle peggiori condizioni possibili. Né poteva andare altrimenti considerando il ruolo strategico di quello che allora i giornali del grande capitale privato italiano (da La Stampa a La Repubblica) – assai più capace a rapinare ricchezza, pubblica e privata, che a generarla – definivano il “carrozzone”: Iri, Enel, Eni etc.; vale a dire la punta di diamante del sistema italiano, quanto mai preziosa per un Paese come il nostro, a sovranità limitata dalla fine della Seconda guerra mondiale, e necessaria anche per una politica estera in grado di sfruttare l’invidiabile posizione geografica del Bel Paese, indubbiamente non ricco di materie prime, ma – perlomeno fino a non molti anni fa – non privo di talento e di ingegno. Ciò non significa che il settore pubblico non andasse ristrutturato e che non si dovesse usare il bisturi, in specie dopo almeno un decennio di una crescita irrazionale ed abnorme del debito pubblico, non per promuovere un processo di modernizzazione del Paese, indispensabile dopo la rivoluzione tecnologica degli anni Settanta, ma soprattutto per favorire lobbies e clientele, perlopiù secondo una logica partitocratica tanto ottusa quanto vergognosa. Insomma, il sistema di potere che si era sviluppato in Italia nella seconda metà del Novecento era palese che fosse giunto al capolinea, tanto più considerando che la crisi e poi il crollo dell’Unione Sovietica segnavano l’irreversibile fine di quel bipolarismo su cui si era retto per decenni il sistema politico internazionale e che era anche a fondamento, per ovvi motivi, della storia della cosiddetta “prima Repubblica”. E si sa che finito un ciclo ne comincia un altro, solo che a questo non avevano pensato i maggiori esponenti politici della vecchia classe dirigente, troppo occupati nella gestione degli “affari interni” dello Stato, bensì uomini come Andreatta, Draghi, Monti, Ciampi, Amato, Prodi, Padoa Schioppa e altri “tecnocrati”, ben inseriti all’interno delle tecnostrutture dell’oligarchia atlantista, che da tempo operava (con successo) per trasformare lo stesso Pci da soggetto politico potenzialmente anti-sistema in un “alleato” particolarmente sicuro ed affidabile, anche perché facilmente ricattabile (ancor più di quanto lo possa essere Berlusconi), offrendogli, tra l’altro, l’opportunità di “riciclarsi” dopo la caduta del Muro. Sicché, non soprende che, se da un lato, per la prima volta nel secondo dopoguerra vi era la possibilità di mettere a frutto l’insegnamento di uomini come Enrico Mattei, che avevano chiaramente mostrato da che parte all’Italia conveniva stare e come si doveva agire per smarcarsi dalla politica di potenza americana, dall’altro, non si esitasse, unicamente per difendere i propri privelegi di gruppo subdominante, di accettare che il Paese diventasse un sottosistema del sistema occidentale, che notoriamente è imperniato sul ruolo predominante del Warfare State americano. E la liquidazione per via giudiziaria della vecchia classe politica – un fatto che, in ogni caso, mai sarebbe potuto accadere quando i partiti erano ancora in grado, se non di scontrarsi, almeno di “mediare” con Washington (e la Comunità europea), non fosse altro che per il timore che un partito comunista avesse la possibilità di conquistare il potere in un Paese occidentale – e la successiva svendita del patrimonio pubblico italiano al capitale privato, soprattutto straniero – svendita attuata tanto dai governi di centrosinistra che da quelli di centrodestra, ma già programmata a grandi linee dagli “uomini del Britannia”, naturalmente assai prima del 2 giugno del 1992 – non sono state che le inevitabili conseguenze della scelta di non opporsi alla ridefinizione in chiave neoatlantista dell’Italia e perfino della stessa Comunità europea (il cui effetto disastroso per i popoli d’Europa – non solo per i greci – è oggi manifesto a chiunque).
Nulla o quasi si comprende allora della recente storia italiana senza considerare queste vicende che rischiano di mutare la repubblica italiana in una “res privata” di potenze e potentati economici stranieri (la cui ultima preoccupazione ovviamente è il benessere, materiale e spirituale, del popolo italiano). Lo stesso scontro tra Berlusconi – “malavitoso” legato ai vecchi centri di potere del regime democristiano e socialista, sostenuto da buona parte delle Pmi e da settori delle imprese pubbliche – e il gruppo affaristico-mafioso di De Benedetti &Co – sostenuto dal grande capitale privato “assistito” e da ampi settori, inutili e nocivi per il bene comune, della pubblica amministrazione , nonché da gran parte di quel ceto medio semicolto (come lo definisce efficacemente Gianfranco La Grassa), che sopravvive grazie ad un politica di rapina che contribuisce non poco ad impoverire il Paese, sottraendo risorse ai settori produttivi o a quelli il cui scopo fondamentale dovrebbe essere la tutela del bene comune – non può non essere compreso, pur tenendo presenti tutti i necessari distinguo, se non alla luce di uno Stato, che ormai ha pochissimi mezzi per difendere la propria posizione. E ciò è tanto più significativo se si considera che il contesto internazionale è vieppiù contrassegnato da squilibri e conflitti di ogni genere, che possono però anche aprire percorsi geostrategici “alternativi”, vuoi per l’emergere di nuove potenze, vuoi per le difficoltà che comunque incontra l’America nel ridefinire gli equilibri internazionali in funzione dei propri interessi (che poi non sono affatto diversi dagli interessi di quel capitale finanziario che alimenta un processo di indebitamento degli Stati, inducendoli a “nazionalizzare” le perdite del sistema bancario e a”privatizzare” i diritti umani fondamentali, ossia i diritti sociali e economici che i popoli hanno conquistato dopo decenni di durissime lotte sociali e politiche). Perciò, oggi più che mai sarebbe di vitale importanza che alla guida del Paese vi fosse una élite in grado di imporre, con il consenso popolare, un fine comune a tutti i settori della comunità nazionale, sia per prendere le distanze dalla geopolitica (criminale) della talassocrazia americana, sia per contrastare la barbarie della società di mercato, attraverso scelte strategiche volte all’acquisizione delle risorse necessarie per “sostenere” un nuovo Welfare – esso stesso da intendere come fattore di coesione sociale, oltre che come indice del grado di civiltà e di maturità culturale di un popolo. Invece lo scontro tra berlusconiani e antiberlusconiani, che è sia effetto che causa (non sotto il medesimo rispetto) della degenerazione ed involuzione del sistema politico e sociale italiano, maschera pericolosamente il lento ed inesorabile declino del Paese; sì che sia gli uni che gli altri si rimproverano a vicenda di essere responsabili di aver rovinato l’Italia, mentre sia gli uni che gli altri sono nel migliore dei casi inconsapevoli strumenti di chi ha tutto l’interesse a ridurre il Paese a “servo della gleba”. (Senza prendere in considerazione il fatto che senza l’ “antiberlusconismo primario” da un pezzo Berlusconi con ogni probabilità sarebbe politicamente finito e ci saremmo potuti liberare definitivamente anche dal berlusconismo; una considerazione però che si dovrebbe fare qualora si ponesse non solo la questione di Berlusconi – che certo esiste – ma anche del berlusconismo, ossia dei reali motivi che hanno permesso a Berlusconi di condizionare la politica italiana in questi ultimi vent’anni).

In quest’ottica, non avendo ciascuna fazione altro scopo se non quello di distruggere l’altra e degradandosi la sostanza etica e politica del Paese al punto tale da non saper più distinguere la barbarie dalla civiltà, è affatto logico che la sinistra giustifichi l’aggressione criminale anglo-francese alla Libia – aggressione che (con il “nullaosta” americano e motivata da interessi economici precisi, tra cui quello di poter impossessarsi del petrolio e di duecento miliardi di dollari “libici” depositati in banche occidentali) supera per gravità addirittura quella americana nei confonti della Serbia che ha portato alla formazione di un narco-Stato nel cuore dell’Europa. E festeggi la sconfitta del berlusconismo alle elezioni amministrative, sventolando le bandiere arancioni di “quel tale”, di nome Soros, a cui, dopo la nota speculazione ai danni della lira, cioè ai danni della stragrande maggioranza degli italiani, fu anche assegnata nel 1995 la laurea honoris causa dall’Università di Bologna. E’ proprio quindi la sinistra che, facendosi veicolo dell’ideologia liberale “made in Usa”, costituisce il maggior ostacolo alla nascita di un movimento di liberazione nazionale – essendo, per ragioni storiche facilmente comprensibili, impossibile (tranne eccezioni, anche notevoli, ma pur sempre tali) che il centrodestra possa formulare una critica coerente e fondata dell’americanismo e del sionismo – e che al tempo stesso rischia di essere il cavallo di Troia che può consentire ai potentati economici di conquistare anche gli “ultimi margini” di autonomia nazionale, eliminando così qualsiasi possibilità di una rifondazione dello Stato italiano. Pertanto, occorrerebbe prendere atto che i processi politico-ideologici che hanno caratterizzato il secolo scorso sono ormai del tutto terminati e che s’impone l’elaborazione di un nuovo paradigma politico-culturale, alla base del quale vi sia un diverso orientamento geopolitico, che tenga conto della imprescindibile esigenza di rafforzare la sovranità politica, monetaria, economica, militare e culturale della Repubblica italiana, qualora non si voglia rinunciare a contrastare l’imperialsmo americano ed a cercare di superare la società di mercato; o perlomeno di “incastonare” il mercato in una struttura e in un ordine istutuzionale, il cui agire strategico abbia come obiettivo principale la promozione di uno sviluppo sociale equo e la difesa di quei legami comunitari che differenziano un popolo da un mero aggregrato umano.
Fabio Falchi
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